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Il Pd e la minoranza: chi non vota la fiducia è fuori e sulle riforme si gioca a carte scoperte

Nella vicenda della minoranza del Pd si intrecciano due questioni: una di metodo e una di merito. Quella di metodo è presto detta. In nessun partito della Prima e della Seconda Repubblica (e cosi sarà verosimilmente anche nella terza) era consentito di spingere il dissenso sino a non votare la fiducia al proprio Governo. C’era e ci sarà sempre un limite oltre il quale c’è solo l’abbandono (come è stato nel mio caso nel ’93 quando Occhetto e D’Alema decisero il ritiro dei ministri dal governo Ciampi provocandone poco dopo la caduta) oppure la scissione.

E’ una questione di lealtà ma anche di correttezza verso gli iscritti e gli elettori. Il dato nuovo di oggi, rispetto al passato è, caso mai, che questo fenomeno ha assunto un carattere endemico. Mentre prima era una eccezione ed era legato a grandi eventi storici quali: l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 56, la nascita del centro sinistra o la trasformazione del Pci dopo il crollo del muro di Berlino. Oggi sembra essere la regola e ad alimentarlo sono per lo più beghe personali, ripicche e talvolta rancori. La ragione di ciò sta nella frammentazione (nello sfarinamento avrebbe detto il grande storico del fascismo De Felice) del sistema politico che, a sua volta, è conseguenza della irrisolta crisi istituzionale.

Noi siamo infatti ancora dentro l’infinita transizione che dalla Repubblica parlamentare, fondata sui partiti e che oggi è irrimediabilmente in crisi, dovrebbe portarci ad una Repubblica di tipo semipresidenziale fondata su una più rigorosa separazione dei poteri ma anche su i un più efficace ruolo dell’esecutivo. Mentre il sistema delle imprese esposto alla concorrenza internazionale e l’Esecutivo che deve rendere conto ai cittadini hanno cercato e cercano di adeguarsi a questa necessità, il resto delle istituzioni e il sistema dei partiti e delle rappresentanze (i corpi intermedi) invece arrancano. L’approdo ad un nuovo assetto istituzionale, se e quando avverrà, delineerà anche il ruolo dei partiti e degli altri organismi e ne definirà meglio sia le responsabilità istituzionali che le regole di comportamento. Nel frattempo non ci resta che navigare a vista ed affidarci al senso di responsabilità nazionale dei gruppi dirigenti. Speriamo bene!

La questione più importante è però quella di merito. La minoranza del Pd non critica Renzi perché va troppo in fretta o perché non prende in seria considerazione le loro proposte. Lo critica perché a loro avviso quelle di Renzi non sono delle riforme bensì delle contro-riforme. Nel caso poi della legge elettorale e della riforma del Senato sono qualcosa di peggio e di ben più grave di una contro-riforma: sono una minaccia per la democrazia (Bersani). Esattamente quello che all’inizio degli anni 80 Enrico Berlinguer diceva della grande riforma istituzionale proposta dal Psi e da Craxi: “… non una soluzione per la crisi italiana ma una grave minaccia per la nostra democrazia!“. E questo è il vero punto in questione.

La riforma del mercato del lavoro con la cancellazione dell’art. 18; quella della scuola ispirata ai criteri dell’autonomia, della responsabilità e del merito; la legge elettorale che intende favorire il bipartitismo e la riforma del Senato che pone fine al bicameralismo perfetto rappresentano, ciascuna nel proprio ambito, il puro e semplice rovesciamento dell’approccio che, storicamente, il Pci prima e i vari Pds, Ds e Pd poi hanno avuto verso questi problemi.  Uno schiaffo intollerabile per gli eredi della Ditta! I quali eredi non possono e non potranno dirsi davvero riformisti se non romperanno davvero con questo retaggio.

La verità è che dagli anni 80 in poi la Ditta (comunque denominata) e le organizzazioni sociali e sindacali, in specie quelle della scuola e della P.A., ad essa collegate, hanno costituito il nucleo forte (lo zoccolo duro avrebbe detto Occhetto) di quel vasto e variegato blocco conservatore che in nome del posto fisso, della scuola egualitaria e non meritocratica, della immodificabilità della ”Costituzione più bella del mondo” e della gestione statale dei cosiddetti ”beni comuni” è riuscita, sino ad ora, ad impedire che in Italia si avviasse, con la sia pur necessaria gradualità, un processo di profonde riforme economiche, sociali ed istituzionali e con esso un rinnovamento civile, culturale e anche morale del Paese. E’ una grave responsabilità storica questa per gli eredi della Ditta. Una responsabilità dalla quale non sarà facile per loro emendarsi. E’ vero, come qualcuno potrebbe obiettare che, ad esempio, Bersani quando era Ministro dell’Industria qualche privatizzazione e liberalizzazione le ha fatte.

Ma è altrettanto vero che quando il processo riformatore ha minacciato da vicino l’assetto istituzionale vigente Bersani ha alzato la bandiera della intangibilità della Costituzione più bella del mondo e quando lo stesso processo ha lambito la scuola e l’università con la per altro timida riforma Gelmini non ha esitato, a sprezzo del pericolo, ad arrampicarsi sui tetti della facoltà di Architettura di Roma occupata dagli studenti a difesa dell’indifendibile. Errori gravi e difficili da giustificare. Se Renzi riuscirà a portare in porto le riforme che ha in cantiere e le altre che ha preannunciato la minoranza del Pd dovrà farsene una ragione oppure dovrà uscire allo scoperto e dare una battaglia aperta e, questa volta, forse non più dentro ma, con ogni probabilità, fuori e contro il Pd.

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