La pubblicazione sul sito della Presidenza del consiglio dei redditi e dei patrimoni dei membri del governo ha suscitato grandi elogi, ed è obbligatorio unirsi al plauso per la determinazione del Presidente del Consiglio nell’ottenerla. Va aggiunto un elogio specifico per lo stile con il quale lo stesso premier presenta agli italiani la propria situazione patrimoniale e quella di sua moglie: la chiarezza di impostazione e la cura nell’elenco delle voci dei documenti sottoscritti ne fanno una preziosa lezione in materia di accountability.
Ciò che nessun osservatore sembra invece aver rilevato è che l’obbligo alla pubblicazione, come emerge anche dall’intestazione di alcuni dei formati utilizzati dai componenti del governo per riferire sui propri redditi e patrimoni, sarebbe esistito in Italia fin dal 1982, anno di approvazione di una legge denominata a suo tempo “anagrafe patrimoniale degli eletti” e che riguarda anche i membri del governo, i quali sarebbero anche tenuti da trent’anni a questa parte ad aggiornare la propria dichiarazione annualmente e, entro tre mesi dalla “cessazione dall’ufficio”, a riferire (artt. 4 e 10 della L.441/82) sulle “variazioni della situazione patrimoniale” alla camera di appartenenza e, se non eletti, al Senato.
Sempre da quell’epoca lontana la legge ascrive il potere di diffida per inadempienza alla diretta responsabilità dei presidenti dei due rami del Parlamento e la cura dell’esecuzione materiale della pubblicazione degli atti ai loro uffici di presidenza. Le stesse norme del 1982 si applicano anche ai vertici di tutti gli enti ed organismi pubblici e finanziati dalla mano pubblica anche locale “per più del 50% dell’ammontare delle spese di gestione esposte in bilancio”, delle aziende di Stato etc. In questo caso la responsabilità della raccolta dei dati per la pubblicazione è in funzione del tipo di organismo interessato e varia dalla presidenza del Consiglio dei ministri al Sindaco. Ciò che può stupire a questo punto è che tale normativa, visto quanto poco è stata applicata, non sia caduta sotto qualche legge “taglia leggi” per essere poi mostrata come trofeo di raggiunta semplificazione burocratica.
Il presidente Monti ha dunque attuato il rivoluzionario principio che le leggi vigenti si applicano con serietà e con spirito di trasparenza e ha preso l’iniziativa di integrare quanto già previsto da trenta anni con la pubblicazione di tutti i documenti sul sito governo.it. Ha inoltre aggiunto, nella dichiarazione, il saldo dei propri conti correnti e di quelli della consorte, fatto che, anche sotto il profilo psicologico, non è di poco conto in termini di intrusione di occhi estranei nella propria vita personale (cosa di più personale di un conto corrente, fino a ieri?) e va rilevato che solo pochi membri del governo hanno integrato con tale punto la propria dichiarazione, per tacere delle dichiarazioni assenti delle mogli e dei mariti dei membri del governo, previste dalla legge a meno che non siano non consenzienti.
La disarmante limpidità della dichiarazione del Presidente del consiglio Monti mette a nudo una serie di questioni di grande momento e richiama in Italia una tradizione di integrità come ovvia regola di vita di cui si erano del tutto perse le tracce e di cui una parte del paese avverte un enorme bisogno.
Tutta la questione mostra che la trasparenza è in primo luogo l’altra faccia della medaglia del rispetto del cittadino. Chi governa non è legibus solutus ma qualcuno che ha la responsabilità e deve rendere conto di ciò che fa e farà, trascinando verso comportamenti virtuosi quanta più parte possibile del paese. Chi governa non si sottrae alla conoscenza dall’esterno, ma anzi apre ogni porta perché non avendo nulla da nascondere ha piacere che ogni cosa sia nota e verificabile. Il comportamento adottato segna uno stacco culturale con il passato e bisogna augurarsi che produca una trasformazione genetica.
Ciò che emerge ancora è che la trasparenza sul web è per il momento la vera faccia della democrazia contemporanea e che la rete deve sistematicamente essere considerato il veicolo principale per l’informazione e il dialogo verso i cittadini. Moltissimo resta da fare per attrezzare culturalmente e tecnicamente in tal senso le amministrazioni pubbliche, anche le più prestigiose.
Il Premier ha poi applicato il principio che per mettere ordine bisogna cominciare da chi comanda e non prendersela con il sergente di giornata. Le norme sulla pubblicità dei redditi e dei patrimoni degli vertici degli enti e società pubbliche esistono da trent’anni ma la trasparenza deve essere curata partendo dall’alto a cascata. Le norme in proposito (e ce ne sono altre oltre a quelle del 1982) sono state finora applicate in modo distratto non perché servano nuove disposizioni ma perché finora quello che Erving Goffman ha chiamato il “consenso operativo” all’interno di molte istituzioni pubbliche italiane, anche a livelli altissimi e nelle stesse magistrature amministrative, è stato nel senso di limitare al minimo indispensabile le curiosità dall’esterno. C’è da auspicare che il rigore faccia scuola.
La vicenda mostra che anche le leggi vecchiotte – trent’anni sarebbero molti, secondo la moda “taglia leggi” – possono essere utilizzate per fare cose preziose e non c’è bisogno di nuove norme quando è sufficiente una circolare del Presidente del Consiglio dei ministri: se ne potrebbe prendere prenda nota per le prossime misure di semplificazione, visto che dal 1997 se ne prescrivono ondate annuali e il risultato è un ordinamento ormai malfermo ed ignoto ai più, funzionari preposti compresi, a qualsiasi livello territoriale di competenza.
Ma l’ultima osservazione riguarda l’anacronismo intollerabile che affligge le nostre camere elettive. I parlamentari che hanno autorizzato la pubblicazione sul web delle proprie dichiarazioni, rese con l’obbligo della formula “sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero”, sono appena un terzo del totale. Gli altri si fanno forti del fatto che la legge del 1982 indica la pubblicazione dei dati su di un “apposito bollettino” e, per sottrarne il contenuto alla pubblica conoscenza con metodi contemporanei, pretendono che la pubblicazione sui siti web di Camera e Senato avvenga solo a seguito di autorizzazione individuale, che non viene rilasciata. In realtà da tempo gli uffici di presidenza delle due camere avrebbero dovuto stabilire che il sito web è il luogo di pubblicazione di ogni informazione sul Parlamento e che ciò che il legislatore nel 1982 intendeva diffuso su supporto cartaceo si deve intendere oggi in formato digitale e disponibile in rete. In materia di anagrafe la legge ascrive il potere di vigilanza e diffida direttamente in capo ai presidenti dei due rami del Parlamento, che non si comprende come possano ammettere ulteriori tergiversazioni e mistificazioni.
C’è da sperare che i media, spentasi la spigolatura tra motociclette, motoscafi e battelli, si occupino di tenere in vista gli elenchi dei parlamentari che hanno negato il consenso alla pubblicazione dei propri dati e li diffondano periodicamente, facendo sapere e ricordando agli elettori qual è l’atteggiamento dei propri eletti in materia di trasparenza personale. Potrebbe essere proprio il punto dal quale cominciare a ripartire.