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Il pasticciaccio dell’election day

Non bastava l’incertezza sulle regole (legge elettorale) per votare alle imminenti elezioni politiche. Ci voleva pure che la data di queste dovesse dipendere da un braccio di ferro all’interno della maggioranza che sostiene il governo Monti e da quanto si deciderà per le elezioni nelle tre regioni in crisi: Lombardia, Lazio e Molise.

Andiamo con ordine e proviamo a fare un breve riassunto delle puntate precedenti. Tutto comincia con la crisi della Regione Lazio, travolta dagli scandali culminati nell’arresto di Fiorito, capogruppo del Pdl, reo di essersi arricchito utilizzando per sé i soldi del finanziamento pubblico attribuiti al suo gruppo consiliare. La prima a gridare allo scandalo è la presidente della Giunta Polverini, che, rivendicando a se stessa il merito di aver cacciato i corrotti, apre la crisi.

Poi però tentenna, anzi prende tempo. Non scioglie il Consiglio e non indice le elezioni come prevede la legge. Dinanzi ad una sentenza del Tar che ribadisce i tempi stretti (90 giorni) per le elezioni e all’inerzia del Presidente, il ministro dell’Interno indica per il voto delle Regioni in crisi (ci sono anche Lombardia e Molise) le date del 10 e 11 febbraio. La Polverini intanto preannuncia ricorso al Consiglio di Stato. 

Ma la reazione più dura contro l’indicazione del Viminale viene dal Pdl. Berlusconi, di ritorno dal Kenia, denuncia lo sgarbo e il complotto e minaccia di mettere in crisi il governo Monti se non ci sarà una pronto e avveduto ripensamento. Alfano a sua volta spiega che bisogna votare insieme per politiche e regionali, al fine di risparmiare soldi.

Al di là dei nobili motivi indicati (il risparmio), c’è il fatto che il Pdl non vuole le elezioni anticipate nel Lazio e in Lombardia perché una sua eventuale sconfitta darebbe slancio ulteriore al centro-sinistra, già favorito dai sondaggi (grillini permettendo) per le prossime politiche. In più Berlusconi, alzando il tiro e la tensione su questo argomento, spera di neutralizzare ed evitare quella che ha chiamato “la cantonata” sulle primarie del centro-destra, volute da Alfano e dal partito, ma da lui fortemente osteggiate. Non va poi dimenticato che, per il Lazio, il Pdl non ha ancora trovato un candidato e per il post-Formigoni in Lombardia si dibatte tra Albertini e Maroni, già indicato dalla Lega.

Fin qui il Pdl. Quanto agli altri, Bersani e il Pd insistono sull’esigenza che sia rispettata la legge che vuole il voto nelle Regioni per febbraio, Casini prova a mediare lanciando l’ipotesi di accorpare regionali e politiche in una data più ravvicinata di aprile. Si parla della metà di marzo. Su questa ipotesi potrebbero convergere anche il Pd e il Pdl. Ma per arrivare a quella data il presidente della Repubblica dovrebbe sciogliere le Camere in anticipo.

Napolitano ha invece più volte fatto sapere che la legislatura deve arrivare al termine, anche per approvare una riforma elettorale che ci liberi dal Porcellum, magari evitando un suo ingrassamento e suoi derivati. Certo, se ci fosse, su questo punto, una forte accelerazione da parte delle forze politiche in Parlamento e non solo, il quadro dinanzi al Presidente della Repubblica cambierebbe. Ma i segnali vanno in tutt’altra direzione.

A margine del forum della cultura, Napolitano, interrogato dei giornalisti, ha risposto che “per ora” non parla di date delle elezioni. E certamente sarebbe auspicabile che su queste questioni si andasse avanti, rispettando la legge e le decisioni di chi provvede ad applicarla, ma l’impressione è che da questo groviglio non si possa uscire che con un compromesso tra le forze politiche. Per favorire il quale potrebbero applicarsi anche alte istituzioni. A cominciare da un governo che finora ha goduto di una posizioni di terzietà rispetto al dibattito tra i partiti. Terzietà che rischia di affievolirsi con l’avvicinarsi della scadenza elettorale. E così la soluzione per l’election day non appare ancora a portata di mano.

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