Non c’è bisogno dei potentissimi radiotelescopi del Seti, protesi a captare qualsiasi bisbiglio cosmico alla ricerca di messaggi alieni, per ascoltare il profondo silenzio che è sceso improvvisamente su Washington DC. Tace e si è ritirata in una fase di meditazione la commissione del Congresso che deve valutare i legami tra Trump e i russi, prodromica all’impeachment del presidente. Tacciono e sono tornati a casa i manifestanti che, fatto raro per l’America, avevano riempito le strade della capitale e promesso cortei sempre più imponenti per denunciare e sventare la fascistizzazione in corso.
Tace il nuovo Congresso, che fino ad ora non ha combinato niente e che si prepara a una lunga vacanza pasquale cui seguirà presto una lunghissima vacanza estiva. Tace l’idrovora di Trump, quella che doveva prosciugare la grande palude di Washington. Il blocco delle assunzioni di dipendenti pubblici, il primo decreto firmato nella sala ovale davanti a tutte le televisioni, non è stato rinnovato ed è stato sostituito dalla richiesta a tutti gli uffici federali di produrre proposte di autoriforma (le burocrazie sono notoriamente famose per la loro capacità e volontà di rinnovarsi e snellirsi). E perfino il carrozzone più efferato, quella Export Import Bank che ha sempre elargito credito alle multinazionali amiche del governo nella più totale opacità e che ogni repubblicano ha sognato di radere al suolo, verrà tenuta in vita.
Tacciono gli economisti trumpiani della prima ora, Navarro, Malpass, Kudlow, quelli che, insieme a Taylor e a Feldstein, si preparavano a diventare governatori della Fed l’anno prossimo o membri del Fomc già quest’anno (ci sono tre posti liberi già adesso). Ora Trump sembra orientato a confermare la Yellen proprio mentre si sceglie come capoeconomista dalla Casa Bianca il brillante Kevin Hassett dell’American Enterprise Institute (uno dei maggiori pensatoi repubblicani di establishment), da sempre proimmigrazione e antiprotezionista. E d’altra parte tacciono ormai i lobbisti di K Street, soddisfatti di avere troncato e sopito le velleità protezionistiche della riforma fiscale preparata da Ryan e ormai in mano a Gary Cohn, l’energico democratico ex presidente di Goldman Sachs che la sta rendendo completamente irriconoscibile. Forse si salveranno le infrastrutture, una spesa una tantum da finanziare con l’entrata una tantum dell’imposta agevolata sul rimpatrio dei fondi tenuti all’estero dalle imprese e quindi revenue neutral.
La svolta centrista e proestablishment di Trump è spettacolare e velocissima non solo in politica estera (con la Russia ripristinata nella sua posizione di nemico pubblico e Xi Jinping omaggiato in tutti i modi in cambio di vaghe promesse sull’apertura cinese ai servizi finanziari americani) ma anche e soprattutto sul versante domestico. Il grande finanziatore e creatore di Trump presidente, quel Robert Mercer dell’hedge fund Renaissance Technologies che due anni fa spiegò a Trump sondaggi alla mano che una campagna elettorale populista avrebbe sbaragliato qualsiasi candidato di sistema, sta perdendo ogni residua influenza con il ridimensionamento di Steve Bannon, il suo uomo nella West Wing.
Avanziamo l’ipotesi che il centrismo prevarrà anche in Francia, in Italia e in tutta l’Europa. Nonostante la forte ascesa di Mélenchon e la tenuta della Le Pen, Macron resta ampiamente favorito. È probabile che governerà con una grande coalizione parlamentare tra i socialisti, i gollisti e il suo partito, En Marche. La possente impalcatura costituzionale della Quinta Repubblica si piegherà per fare posto alla grande coalizione (così come si piegò già negli anni Ottanta per fare posto alla coabitazione tra presidente e governo di colori diversi) ma continuerà ad assolvere la sua funzione essenziale di barriera contro le estreme. Dovessero poi vincere Mélenchon o la Le Pen, entrambi si troverebbero a dovere coabitare con un governo moderato (il governo può essere sfiduciato dall’Assemblea Nazionale, che dopo il voto di giugno rimarrà con una salda maggioranza proeuropea).
In Italia avremo tre schieramenti elettorali ma solo due esiti di governo realisticamente possibili. Da una parte una grande coalizione di sistema, la più probabile, e dall’altra una coalizione antisistema Cinque Stelle- Lega. La seconda avrebbe una dispersione di posizioni maggiore della prima ma entrambe sarebbero sostanzialmente centriste. Per ora gli alieni tacciono.
Nel caso probabile di vittoria di Macron l’euroscetticismo italiano risulterà isolato e si dovrà accontentare alla fine, in caso di vittoria, della creazione (o della discussione sulla creazione eventuale) di una valuta complementare, il cosiddetto euro fiscale. La valuta parallela in modica quantità e a circolazione locale è abbastanza innocua. Se la quantità è elevata è da considerare l’anticamera della messa fuori corso della valuta ufficiale, ovvero della sua sostituzione. Varoufakis la propose in Grecia e Tsipras la rifiutò e licenziò Varoufakis. In Italia la confusione e l’ansia create dalla valuta parallela sarebbero di gran lunga superiori agli eventuali benefici. Dopo la conclusione del ciclo elettorale europeo (e quindi dopo le elezioni italiane) se non ci saranno sorprese l’Europa cercherà di rafforzare la sua impalcatura. Non grandi cose, ma qualche trave di sostegno nei punti più fragili. Una di queste travi sarà costituita probabilmente dagli European Safe Bonds, i cosiddetti ESBies, una buona idea che circola già dal 2011 e che ora sembra sempre più matura. Si tratta della cartolarizzazione di debito emesso dai vari paesi dell’eurozona fino a un controvalore pari al 60 per cento del Pil. Btp, Bund, Oat e Bonos verrebbero assemblati e ridistribuiti in due tranche, una senior e una junior. Se i Btp dovessero essere ristrutturati, anche aggressivamente, il danno verrebbe assorbito dalla tranche junior. In questo modo si verrebbe a creare un debito paneuropeo sicuro (nella parte senior) senza mutualizzazione e con una cedola molto bassa (sempre per la parte senior). Questo aiuterebbe molto l’Italia senza in nessun modo danneggiare la Germania (l’idea degli ESBies è di un tedesco).
Negli ultimi tempi si è preso a dire che per il populismo è iniziata la parabola discendente. La svolta centrista di Trump e l’eventuale vittoria di Macron non sarebbero che la conferma di un riflusso già visto in Spagna e in Olanda. Non c’è dubbio che sia così nel breve. Tuttavia quelli che insistono sul populismo in ritirata sono spesso quelli che dicono che l’immigrazione verso l’Occidente è appena iniziata, che il grosso deve ancora venire e che il processo è ineluttabile.
Ora succede che il populismo si nutre di bassa crescita economica e di rifiuto di un’immigrazione fuori controllo. La crescita globale è quest’anno in modesta ripresa, ma sembra azzardato affermare (proprio adesso che l’America sta annacquando le sue riforme e che il ciclo globale mostra segni crescenti di maturità) che torneremo ai livelli pre-2008. Bassa crescita e alti flussi migratori continueranno quindi ad alimentare il malessere alla base del populismo. Il suo ridimensionamento è quindi da considerare temporaneo e non strutturale. Alla prossima recessione molti nodi ritorneranno al pettine.
I mercati sono chiamati ora al compito impegnativo di conciliare e prezzare da una parte la perdita di senso del Trump trade e dall’altra il ripristino di Markus Brunnermeier, il creatore degli ESBies. Uno status quo centrista che sembrava minacciato dal protezionismo e dalla destabilizzazione globale trumpiana. L’aggiustamento alla nuova realtà è iniziato con lo sgonfiamento del reflation trade legato a Trump (resta in piedi il reflation trade da ciclo maturo, ma qui i tempi sono molto più lunghi). In borsa l’erosione dell’indice è modesta e graduale, ma sotto la superficie la controrotazione da banche e ciclici verso i difensivi è in America già molto avanti.
Suggeriamo di vendere borsa americana e Bund su forza e di acquistare borsa europea e Oat su debolezza. Il tutto in dosi moderate perché le sorprese non sono mai da escludere.