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Il nuovo contratto Pa? Non è un obbligo

Tra il 2008 e l’inizio di quest’anno, il pubblico impiego ha perso solo 3 punti d’inflazione e sta recuperando l’1% con la contrattazione integrativa e il bonus di 80 euro. La Costituzione non obbliga lo Stato a rinnovare i contratti purché la retribuzione sia equa: i dipendenti pubblici hanno lo stesso livello salariale dei privati ma con meno produttività

Il nuovo contratto Pa? Non è un obbligo

 Il prossimo 23 giugno la Corte Costituzionale esaminerà il ricorso di vari sindacati del pubblico impiego contro il blocco dei contratti deciso nel 2010 dal Governo Berlusconi e poi sempre prorogato dai successivi governi Monti, Letta e  Renzi.  L’attenzione degli osservatori e dei media si è concentrata sul costo di una eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme di blocco e quindi sull’onere per le casse dello Stato della restituzione di quanto dovuto nei cinque anni passati e del maggior costo per il 2016. Si tratta di cifre imponenti : la ragioneria generale del Tesoro stima un onere di 35 miliardi per il pregresso e di ben 16 miliardi aggiuntivi a partire dal 2016. Anche le stime dei sindacati che sostanzialmente dimezzano quelle del Tesoro, sono comunque così elevate da non poter essere sopportate dalle casse dello Stato. E non si tratta solo di tener conto del vincolo di pareggio di bilancio invocato dai più per sostenere che la Corte dovrebbe tener conto dell’art. 81 della Costituzione, ma di ragionare in termini sia  giuridici sia economici sul diritto alla contrattazione dei pubblici dipendenti come dei privati.

   Esiste questo diritto? Cioè, un datore di lavoro deve per forza rinnovare il contratto secondo le regole della contrattazione collettiva in vigore nel nostro paese, e qualora fosse obbligato a farlo, deve per forza prevedere un miglioramento salariale o, in ipotesi, sarebbe possibile fare un contratto riducendo la retribuzione dei dipendenti?

   Non sembra che questo diritto sia sancito dalla Costituzione, la quale si limita ad affermare che i lavoratori hanno diritto ad un equo compenso. E qui entrano in ballo le questioni economiche legate alla terribile fase di crisi che il paese ha vissuto a partire dalla fine del 2008 e che solo ora sembra si stia attenuando, ed alla situazione relativa dei pubblici dipendenti rispetto a quelli del settore privato.
   A questo punto il ragionamento si fa molto complesso. L’Aran, l’Agenzia statale che si occupa della contrattazione del settore pubblico, elabora una imponente massa di dati da cui si possono trarre utili indicazioni.

   In primo luogo bisogna considerare che tra il 2000 ed il 2010 le retribuzioni nella PA sono salite del 35% mentre l’inflazione cumulata del periodo è stata del 25%. Rispetto al settore privato la retribuzione media nella PA era nel 2010 di 27.600 Euro mentre quella privata era di 25.500 Euro. Nel 2015 le retribuzioni delle due categorie di lavoratori si sono collocate intorno ai 27.500 Euro. In sostanza il blocco della contrattazione nella PA ha portato ad una equiparazione delle retribuzioni tra i due comparti. Ma per capire meglio la situazione economica nella quale ci siamo trovati dalla crisi del 2008 occorre considerare non solo le retribuzioni contrattuali (come quelle su cui si basano i confronti precedenti) ma quelle di fatto, che sono state tagliate nel settore privato dall’esplosione della Cassa Integrazione(meno 20% del salario) e soprattutto dalla disoccupazione. Infatti nel corso di questo periodo il settore privato ha perso un milione di posti di lavoro per effetto di licenziamenti collettivi o di chiusa di fabbriche, mentre la PA ha visto una riduzione del numero dei lavoratori solo per effetto del blocco del tourover.

  In più gli ultimi dati segnalano che le retribuzioni pro capite nel 2015 stanno recuperando circa l’1% per effetto dei minori vincoli previsti dalla legge Madia sulla contrattazione integrativa, e per la stabilizzazione in busta paga degli 80 Euro. Nel complesso se si prendono i dati che vanno dal 2008 al febbraio di quest’anno, si vede che mentre l’inflazione cumulata in Italia è stata del 12,8%, le retribuzioni nella PA sono salite del 9,5%. Una perdita di tre punti, ma non certo drammatica se si considera la sicurezza del posto di lavoro di cui godono i pubblici dipendenti, e la minore tensione verso il raggiungimento di sempre più elevati livelli di produttività cui invece sono sottoposti i lavoratori che operano in settori esposti alla concorrenza. Dal punto di vista dell’equilibrio economico generale ed anche dell’equità tra lavoratori di diversi settori, non sembrano esserci dubbi sul fatto che la Corte dovrebbe rigettare il ricorso dei sindacati, senza nemmeno pensarci troppo.

   Più in generale ci si può chiedere se il blocco della contrattazione sia lo strumento più efficace per ridurre i costi della PA. Se si tratta di avere un impatto immediato sulle casse dello Stato, la scelta è giusta, ma in prospettiva si tratta solo di una dimostrazione dell’incapacità del datore di lavoro pubblico di perseguire accordi sindacali capaci di legare la retribuzione alla produttività, punendo coloro che non vogliono collaborare al raggiungimento degli obiettivi. Probabilmente il fatto che l’ultima norma di blocco del governo Renzi preveda esplicitamente la fine del congelamento contrattuale al dicembre di quest’anno, sta a significare che con l’approvazione della riforma Madia della PA, dal prossimo anno potrà aprirsi una fase nuova e più dinamica di contrattazione volta a recuperare qualità ed efficacia della Pubblica Amministrazione. O almeno si spera.
        

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