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Il Nord-Est non è più la locomotiva d’Italia e tutte le regioni crescono molto meno dell’Europa: Pil pro-capite in discesa

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Negli ultimi vent’anni tutte le regioni italiane sono cresciute a ritmi molto inferiori rispetto a quelli delle altre regioni d’Europa. E il Nord-est, un tempo chiamato “la locomotiva d’Italia” arranca e non riesce a trainare il Paese su un più veloce sentiero di sviluppo.

La lenta crescita è la vera malattia dell’Italia, malattia che ne sta minando la salute economica e sociale, con riflessi sulla stabilità politica. Infatti, se in Italia nel 2000 il Pil pro-capite era del 22% più elevato rispetto alla media europea, vent’anni dopo ne è del 6% sotto. Un arretramento che, pur con intensità diverse, non risparmia nessuna regione italiana. Né quelle che partivano da livelli di Pil pro-capite superiori: gli abitanti della Lombardia avevano un Pil del 62% più alto del cittadino medio europeo, dopo vent’anni il vantaggio è calato di due terzi, al 23%; l’Emilia- Romagna ha fatto peggio, passando da +51% a +13%. Né quelle che partivano già nel 2000 da livelli del Pil inferiori alla media europea: in Campania il Pil pro-capite era del 18% più basso della media UE, nel 2019 è del 39% inferiore; in Sicilia era più basso del 22% e dopo quasi vent’anni la differenza si attesta a -42%.

La lenta crescita è il nodo che dovranno affrontare i vincitori delle prossime elezioni, e i programmi dei candidati vanno vagliati sulla capacità di sciogliere tale nodo. Altrimenti le promesse elettorali o verranno disattese o aggraveranno la malattia, accelerando il declino.

Le regioni italiane perdono posizioni nella classifica europea del benessere

Negli ultimi vent’anni tutte le regioni italiane sono cresciute a ritmi inferiori rispetto a quelli delle altre regioni d’Europa, in particolare rispetto alle regioni di testa. Un andamento che ha accomunato anche le regioni del Nord-est, che una volta venivano considerate la “locomotiva d’Italia” per la loro capacità di trainare l’economia nazionale.

Il Pil pro-capite medio europeo è passato da 24.175 euro a 32.277, con un incremento del 33,5%. Nello stesso periodo l’area italiana con il più elevato tasso di crescita è Bolzano (+18,1%), mentre tutte le altre regioni italiche sono cresciute meno del 10%. Il Pil pro-capite è la misura principe del benessere materiale.

Il confronto tra il Pil pro-capite delle regioni italiane e di quelle tedesche nel periodo 2000-2019 fornisce un panorama interessante sia per le regioni che partivano da valori più elevati che per quelle che nel 2000 avevano valori più bassi rispetto alla media italiana. Il confronto con le regioni tedesche è interessante per diversi motivi: alcune aree della Germania, come il Bayern e il Baden-Württemberg, sono spesso state prese come benchmark dalle regioni del Nord Italia per la loro vocazione manifatturiera; nel 2000 la Germania aveva, come l’Italia un forte divario negli indicatori di sviluppo tra regioni avanzate (quelle a Ovest; in Italia quelle del Nord) e arretrate (i Länder dell’Est; in Italia le regioni del Sud); inoltre, nel 2000 la Germania era considerata la malata d’Europa, per la sua lenta crescita, come ora l’Italia; infine, i due paesi condividono una forte vocazione all’esportazione.

Qualche esempio. L’Oberbayern, la regione tedesca che ospita Monaco, tra quelle considerate un benchmark per le regioni ad alta vocazione manifatturiera del Nord Italia, è cresciuto del 27,5%. Stuttgart, nel Baden-Württemberg, che partiva da valori del Pil appaiati a quelli della Lombardia e di poco superiori a quelli dell’Emilia-Romagna, vede crescere il Pil pro-capite da 38.890 a 50.530 Euro (+29,9%), mentre le due regioni italiane fanno registrare, rispettivamente, variazioni del 4,8% e del 3,7%.

La differenza di velocità tra regioni italiane e tedesche è ancora più marcata se si effettua il confronto tra i territori che partivano, in entrambi i Paesi, da valori bassi del Pil pro-capite. Chemnitz, in Sassonia, che aveva valori del Pil pro-capite che si collocavano tra quelli della Calabria e quelli della Sicilia, tra il 2000 e il 2019 riesce a crescere del 48,1%, mentre le due regioni italiane fanno registrare un incremento del 3,7% la prima e dell’1% la seconda.

La dinamica del Pil appena descritta ha portato a un sensibile scivolamento verso il basso di tutte le regioni italiane nella classifica per Pil pro-capite. La Lombardia perde 20 posizioni, l’Emilia-Romagna 26, la Toscana 35, il Veneto 37 e il Piemonte 51. L’Umbria evidenzia l’andamento peggiore: -78 posizioni nel ranking. Al Sud “svetta” la Basilicata che riesce a perdere “solamente” 30 posizioni. Il Lazio ne perde 34.

E il Covid? Le regioni più colpite dalla pandemia, in termini di numero di casi, sono quelle che più ne hanno risentito anche da un punto di vista economico. Nel 2019 il Pil pro-capite in Italia era pari al 96% di quello medio europeo, nell’anno della pandemia si è attestato al 94%, allontanandosi di due punti percentuali dalla media europea. Variazioni più intense, causate dalla pandemia, si riscontrano in Emilia-Romagna (da 117% a 113%), in Lombardia (da 127% a 123%) e in Veneto (da 109% a 105%). Le regioni del Sud hanno, invece, registrato variazioni meno intense (da 62% a 61% sia la Campania che la Puglia, da 59% a 58% la Sicilia).

Le regioni “in trappola” non sono solamente in Italia

Le regioni italiane non sono le uniche, in Europa, ad aver sperimentato un periodo prolungato di crescita lenta del Pil e di modesti guadagni di produttività, legati a una scarsa creazione o addirittura perdita di posti di lavoro.

La lenta crescita può diventare una vera e propria trappola dalla quale è difficile uscire. Lo sostengono quattro economisti (Andreas Diemer, Simona Iammarino, Andrés Rodríguez-Pose e Michael Storper) in un lavoro pubblicato di recente (The Regional Development Trap in Europe). La “Trappola dello sviluppo regionale” descrive la situazione in cui una regione perde dinamismo economico in termini di reddito, produttività e occupazione, e ottiene risultati peggiori non solo rispetto ai propri pari nazionali ma anche a quelli europei L’analisi condotta sulle regioni europee per il periodo 2001-2015 evidenzia che il rischio di cadere nella trappola dello sviluppo è maggiore tra le regioni di Paesi come la Francia, l’Italia e la Grecia ma anche per alcune regioni di vecchia industrializzazione dei paesi nordici e del Regno Unito (ricompreso nell’analisi anche se uscito dall’UE). Al contrario, il rischio di essere presi nella trappola dello sviluppo è basso per le regioni dell’Europa centrale e orientale, tra cui quelle tedesche.

Le regioni che si trovano in trappola vivono in una condizione scomoda: da un lato, i loro costi di produzione risultano troppo elevati per poter essere competitive nella produzione di beni e servizi a basso valore aggiunto; dall’altro lato, la qualità del loro capitale umano, combinata alla capacità di innovazione radicale, si rivela insufficiente per rivaleggiare con quella delle regioni di testa in Europa, che rimarrebbero quindi inavvicinabili nella produzione di beni e servizi tecnologicamente avanzati e ad alta intensità di conoscenza.

Come si esce dalla trappola?

Partendo dai fattori che tradizionalmente hanno generato la crescita (struttura economica, capitale fisico e infrastrutture, capitale umano e caratteristiche della forza lavoro, geografia economica e qualità istituzionale) è possibile andare alla ricerca delle caratteristiche che accomunano le regioni europee in trappola. Si tratta di un’analisi puramente descrittiva, ma illuminante per alcune associazioni che ne emergono.

Riguardo alla struttura economica risulta che, tra le regioni intrappolate o a rischio di essere intrappolate, nel periodo 2001-2015 la variazione del valore aggiunto generato dal settore industriale è stata più bassa rispetto a quella che si è registrate nelle altre regioni. 

Altra caratteristica riguarda la crescita, nell’economia delle regioni intrappolate, del peso del valore aggiunto generato dai servizi non di mercato (in gran parte servizi pubblici e privati nei settori del welfare, della salute, dell’istruzione e della difesa), e questo sembra valere, in particolare, per le regioni a reddito medio e alto come gran parte delle regioni settentrionali italiane. Quindi, il ruolo del manifatturiero in una regione e la sua variazione nel tempo appaiono fattori sui quali porre attenzione quando si analizzano i processi di crescita.

Anche la demografia gioca un ruolo a sfavore delle regioni intrappolate, in particolar modo per quelle caratterizzate da un altro livello dei redditi come quelle del Nord e Centro Italia. L’indice di dipendenza, ossia il rapporto percentuale tra la popolazione in età non attiva (0-14 anni e oltre 64 anni) e la popolazione attiva (15-64 anni), peggiora, segnalando un peso crescente delle popolazioni in età non attiva nelle regioni intrappolate. Ciò suggerisce di adottare politiche a favore dei giovani lavoratori, più che degli anziani (pensionamento anticipato); e indirizzate all’istruzione e alla formazione, più che all’innalzamento delle rendite previdenziali, trovando un nuovo equilibrio nella spesa per il welfare, oggi molto spostata a favore degli anziani.

Molti dei problemi delle regioni “economicamente intrappolate”, in particolar modo quelle caratterizzate da redditi medio-alti, non hanno avuto, negli ultimi anni, grande considerazione. Il rischio è di sottovalutare l’impoverimento umano e sociale, oltre che economico e di conoscenza, che perpetua la condizione di regione in trappola. I cittadini delle regioni che rimangono intrappolate alla lunga perdono la capacità di elaborare visioni e progetti finalizzati allo sviluppo futuro, autoalimentando la convinzione di essere tagliati fuori dai processi di crescita e ciò, quindi, genera in loro il risentimento sociale e politico che conduce a politiche risarcitorie anziché premiali delle iniziative di crescita. Una vera trappola. Il voto del 25 settembre mette i cittadini italiani di fronte a una scelta davvero complessa.

°°°°L’autore è ricercatore senior della Fondazione Nord Est

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  • stavo rispondendo al Suo reportage, ma continuamente si cancella tutto, quindi non le posso esprimere il mio parere.