Il coronavirus non distruggerà la società della prestazione
La sintesi di Byung-Chul Han
Il filosofo coreano Byung-Chul Han, ormai naturalizzato tedesco, è uno dei filosofi più apprezzati e influenti della filosofia contemporanea. Insegna filosofia e teoria dei media all’Universität der Künste di Berlino. Si è laureato con una tesi su Martin Heidegger. Nella sua filosofia si sentono le suggestioni del pensiero di Michel Foucault, Walter Benjamin e di altri innovatori del pensiero occidentale del XX secolo.
Non manca neppure l’apporto della filosofia orientale, la parte del globo da cui proviene. La filosofia senza Dio, cioè il buddismo, è oggetto di un libro (poco più di 100 pagine) in cui i grandi pilastri del pensiero concettuale occidentale, da Platone in poi, sono comparati al buddismo zen. Da questo confronto Han constata l’impossibilità di una mediazione tra i due sistemi di pensiero a causa della irriducibilità del pensiero zen a quello occidentale e viceversa.
Come La religione del Buddismo, molti dei libri Byung-Chul Han sono in genere piuttosto brevi, il che è una scelta che lo avvicina molto al grande pubblico. I suoi libri più importanti sono tradotti in molte lingue, anche in italiano, nella maggior parte dall’editore Nottetempo.
La società della prestazione
Il profilo pubblico di Han è piuttosto minimalista: è molto riservato, dà poche interviste e i suoi interventi extrauniversitari sono piuttosto rari, ma si fanno sempre notare. Molto stimolanti sono le riflessioni su quella che il filosofo coreano chiama la “società della prestazione” spinta fino all’autosfruttamento (un concetto molto dirompente). Sulla “società della prestazione” si è perfettamente innestata la “rivoluzione digitale” le cui conseguenze, sul solco di Heidegger, sono molto problematiche e generali secondo ilfilosofo tedesco-coreano.
La questione più spaventosa è che la rivoluzione di Internet e dei social media ha trasformato le relazioni in connessioni e omologato il pensiero e il comportamento a un modello che procede all’unisono verso un conformismo disarmante e controllato. E qui cade il problema della pandemia.
Proprio il controllo della pandemia con la tecnologia, giustificata con ragioni di forza maggiore — quella della salute pubblica, può diventare un’arma pericolosa in mano al capitalismo dell’autosfruttamento che vede nella biopolitica — un concetto che Han mutua da Foucalut — un nuovo ed efficace sistema di sopravvivenza e diffusione. Succederà qualcosa di molto più estremo del controllo psicopolitico attuato attraverso i big data dalle grandi compagnie di Internet e dai governi autoritari. Al tema della psicopolitica Byung-Chul Han ha dedicato un omonimo libro di 80 pagine.
E se invece fosse tecnologia civile?
Ma la pandemia può anche essere l’opposto, cioè l’opportunità che mancava per cambiare l’attuale assetto di controllo della tecnologia, come rimarca con forza un’altra voce ferocemente critica della società della sorveglianza attraverso l’oligopolio dei big data. Si tratta della voce di Jaron Lanier.
Su “Foreign Affairs”, Lanier il pioniere della realtà aumentata, lodando il modello tecnologico di contenimento della pandemia attuato a Taiwan e in Corea asserisce che la tecnologia al servizio della lotta alla pandemia può essere sottratta al controllo sociale dei governi. Può invece trasformarsi una tecnologia civica, come avviene, appunto, a Taiwan e in Corea del Sud dove si sta modellando la cultura della tecnologia civica.
Questa cultura consiste nella “condivisione di informazioni dal basso verso l’alto, nel partenariato pubblico-privato, nel’hacktivismo e nell’azione collettiva partecipativa”. Questi tipo di tecnologia può veramente consolidarsi oltre l’emergenza per diventare il modo in cui la tecnologia interagisce con la società nel suo complesso e con i costruttori di innovazione.
Uno scenario che potrebbe apparire utopistico a Byung-Chul Han anche se non manca di apprezzare il modo in cui il suo paese di origine ha fronteggiato, e forse superati, la crisi senza fermare il sistema come hanno fatto gli europei. Un modo che mette ancora più in evidenza l’impreparazione degli europei , anche politica, e della cultura occidentale a confrontarsi con eventi di quel tipo.
In un esteso intervento su “El País” Byung-Chul Han ha avuto modo di esprimere il suo punto di vista. Di seguito vi offriamo, nella integralità, la nostra traduzione del suo intervento dal titolo La emergencia viral y el mundo de mañana. L’articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2020, pertanto i dati e le informazioni che riferisce devono essere correlati a quel periodo. Come pure le questioni del discorso pubblico sono quelle del mese di marzo 2020.
Buona lettura.
La difficoltà dell’Europa
Il coronavirus sta mettendo sotto stress il nostro sistema. L’Asia sembra reagire meglio alla pandemia rispetto all’Europa. A Hong Kong, Taiwan e Singapore ci sono pochi infetti. A Taiwan sono stati registrati 108 casi e a Hong Kong 193.
Al contrario, in Germania, dove il virus è arrivato più tardi, ci sono già 15.320 casi confermati e in Spagna 19.980 (dati del 20 marzo). Anche la Corea del Sud ha superato la fase più critica, così come il Giappone.
Perfino la Cina, il paese d’origine della pandemia, sembra averla sotto controllo. Ma né a Taiwan né in Corea è stato imposto il divieto di lasciare l’abitazione, né negozi e ristoranti sono stati chiusi.
Nel frattempo, è iniziato un esodo di asiatici che lasciano l’Europa. Cinesi e coreani vogliono tornare nei loro paesi, perché si sentono più sicuri lì. I prezzi dei voli sono andati alle stelle. I biglietti aerei per la Cina o la Corea sono centellinati.
L’Europa non sta reagendo bene. Il numero di infetti aumenta esponenzialmente. L’Europa non sembra in grado di controllare la pandemia. In Italia centinaia di persone muoiono ogni giorno. Respiratori che sono rimossi da pazienti anziani per aiutare i giovani. Ma ci sono anche azioni inutilmente eccessive.
La chiusura delle frontiere è chiaramente un’espressione disperata di sovranità.
Ritorno al passato
L’Europa si sente impreparata all’era della sovranità. Il sovrano è colui che decide sullo stato di emergenza. È sovrano chi chiude i confini. Ma questa è una dimostrazione vuota e inutile di sovranità. Cooperare intensamente all’interno dell’Eurozona sarebbe molto più utile che chiudere brutalmente i confini.
Nel frattempo, l’Europa ha anche decretato il divieto di ingresso agli stranieri: un atto del tutto assurdo alla luce del fatto che l’Europa è proprio il posto dove nessuno vuole venire. Nel migliore dei casi, sarebbe più saggio emanare un divieto alle uscite degli europei dell’Europa, per proteggere il mondo dall’Europa. Dopotutto, in questo momento è l’Europa l’epicentro della pandemia.
I vantaggi degli asiatici
Rispetto all’Europa, quali vantaggi offre il modello asiatico di lotta alla pandemia? Stati asiatici come Giappone, Corea, Cina, Hong Kong, Taiwan o Singapore hanno una mentalità autoritaria, che deriva dalla loro tradizione culturale (confucianesimo).
Le persone sono meno ribelli e più obbedienti che in Europa. Hanno anche più fiducia nello Stato. E non solo in Cina, ma anche in Corea o in Giappone. La vita quotidiana è organizzata in modo molto più rigido e controllato che in Europa. Per affrontare il virus, gli asiatici si sono affidati alla sorveglianza digitale.
Credono che i big data possano avere un enorme potenziale di difesa contro la pandemia. Si potrebbe dire che le epidemie in Asia non sono combattute solo da virologi ed epidemiologi, ma soprattutto da informatici e specialisti dei big data. Un cambio di paradigma che l’Europa non ha ancora assimilato. Gli apologeti per la sorveglianza digitale asseriscono che i big data salvano vite umane.
La sorveglianza digitale in Cina
La critica alla sorveglianza digitale è praticamente inesistente in Asia. Si parla poco di protezione dei dati, anche in stati democratici come il Giappone e la Corea. Nessuno è particolarmente turbato dalla frenesia delle autorità di raccogliere dati.
Nel frattempo la Cina ha introdotto un sistema di controllo sociale inimmaginabile per gli europei, che consente un monitoraggio completo dei comportamenti dei cittadini. Ogni cittadino può così essere valutato in base al proprio comportamento sociale.
In Cina non c’è momento della vita quotidiana che non sia soggetto a scrutinio. Ogni clic, ogni acquisto, ogni contatto, ogni attività sui social network è monitorata. Coloro che attraversano con semaforo rosso, quelli che biasimano il regime o quelli che pubblicano post critici verso il governo sui social network si vedono sottratti dei punti nella valutazione sociale. A questo punto la loro vita va incontro a dei rischi.
Al contrario, coloro che acquistano cibo sano online o leggono giornali legati al regime crescono nella valutazione sociale. Chiunque abbia abbastanza punti ottiene un visto per un viaggio o dei buoni acquisto. Al contrario, chiunque scenda sotto un certo numero di punti potrebbe, per esempio, perdere il lavoro.
I mezzi del controllo sociale
In Cina questa sorveglianza sociale è possibile perché esiste uno scambio illimitato di dati tra Internet, i provider di telefonia mobile e le autorità. Non esiste praticamente alcuna protezione dei dati. Il termine “sfera privata” non esiste nel vocabolario cinese.
Ci sono 200 milioni di telecamere di sorveglianza in Cina, molte delle quali dotate di una tecnica di riconoscimento facciale molto efficiente. Rilevano persino le rughe sul volto. Non è possibile sottrarsi alle telecamere di sorveglianza. Queste telecamere, dotate di intelligenza artificiale, possono osservare e valutare ogni cittadino negli spazi pubblici, nei negozi, nelle strade, nelle stazioni e negli aeroporti.
L’intera infrastruttura per la sorveglianza digitale si è ora rivelata estremamente efficace nel contenere l’epidemia. Quando qualcuno lascia la stazione di Pechino, viene automaticamente ripreso da una telecamera che misura la temperatura corporea. Se la temperatura non è standard, tutti coloro che lo circondano ricevono una notifica sui loro telefonini.
Non sorprende che il sistema sappia chi si sieda sul treno. Sui social network si legge che i droni vengono utilizzati per controllare le quarantene. Se uno rompe clandestinamente la quarantena, un drone gli va incontro e gli ordina di tornare subito a casa. Potrebbe anche stampare la multa. Una situazione che per gli europei è distopica, ma alla quale, a quanto pare, non c’è opposizione in Cina.
Come dicevo, né in Cina né in altri stati asiatici come la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan o il Giappone esiste una critica consapevole della sorveglianza digitale o dei big data. La digitalizzazione li rende completamente dipendenti dai suoi mezzi. Ciò è dovuto anche a un motivo culturale. Il collettivismo regna in Asia. Non esiste alcun individualismo spinto. L’individualismo non è la stessa cosa dell’egoismo, che ovviamente è molto diffuso anche in Asia.
Dai psicopolitica alla biopolitica
I big data sembrano essere più efficaci nella lotta contro il virus rispetto alle assurde chiusure dei confini in atto in Europa. Tuttavia, a causa della protezione dei dati, in Europa non è possibile combattere un virus digitale in modo paragonabile all’Asia.
I fornitori cinesi di telefonia mobile e internet condividono i dati sensibili dei clienti con i servizi di sicurezza e con i ministeri della salute. Lo Stato quindi sa dove sono, con chi sono, cosa faccio, cosa cerco, cosa penso, cosa mangio, cosa compro e dove vado.
È possibile che in futuro lo Stato possa controllare anche la temperatura corporea, il peso, il livello di zuccheri nel sangue ecc. Una biopolitica digitale che accompagna la psicopolitica digitale di controllo attivo sulle persone.
A Wuhan migliaia di squadre investigative sono state messe al lavoro per cercare potenziali persone infette basandosi esclusivamente su dati digitali. Con l’analisi dei big data, scoprono chi è potenzialmente infetto, chi deve essere messo in osservazione e infine in quarantena. Anche per quanto riguarda la pandemia, il futuro sta nella digitalizzazione.
La sovranità è definita dal possesso dei dati
A causa dell’epidemia, dovremmo forse ridefinire anche il concetto di sovranità. È sovrano chi possiede i dati. Quando l’Europa proclama uno stato di allarme o chiude i confini, continua ad aggrapparsi ai vecchi modelli di sovranità.
Non solo in Cina, ma anche in altri paesi asiatici, la sorveglianza digitale è utilizzata ampiamente per contenere l’epidemia. A Taiwan, lo Stato invia automaticamente e in modo simultaneo un sms a tutti i cittadini che hanno avuto contatti con persone infette o per segnalare luoghi ed edifici dove ci sono stati dei contagiati.
Già in una fase molto precoce, Taiwan ha utilizzato una procedura dati per individuare possibili persone infette in base ai viaggi che avevano effettuato. In Corea chiunque si approssimi a un edificio in cui si è avuto un contagio riceve, attraverso l’app “Corona-app”, un alert. Tutti i luoghi in cui sono verificati contagi sono registrati nell’applicazione.
La protezione dei dati e la sfera privata non sono prese molto in considerazione. In Corea le telecamere di sorveglianza sono installate in ogni edificio su ogni piano, in ogni ufficio e in ogni negozio. È praticamente impossibile muoversi negli spazi pubblici senza essere ripreso da una videocamera. Con i dati presi dal telefonino e con il materiale filmato dalle telecamere, è possibile creare il profilo dei movimenti di una persona infetta.
I movimenti di tutti gli infetti sono quindi resi disponibili. Può succedere che si scoprano anche delle tresche o dei traffici.
Le maschere protettive in Asia
Una notevole differenza tra Asia ed Europa è soprattutto l’uso delle maschere protettive. In Corea non c’è quasi nessuno che vada in giro senza maschere con respiratore per filtrare l’aria dai germi. Non sono le maschere chirurgiche, ma maschere protettive speciali con filtri che possono essere indossate anche dai medici e dai paramedici.
Nelle scorse settimane, la questione prioritaria in Corea è stata la disponibilità di maschere per la popolazione. Enormi code si sono formate davanti alle farmacie. I politici sono stati giudicati in base alla rapidità di fornitura delle maschere. In tutta fretta sono stati costruiti nuovi impianti per la produzione di maschere.
Al momento c’è una buona disponibilità. Esiste anche un’applicazione che comunica la farmacia più vicina con disponibilità di maschere. Credo che le maschere protettive, distribuite all’intera popolazione, siano state fondamentali per contenere l’epidemia in Asia.
I coreani indossano maschere antivirus anche nei luoghi di lavoro. Anche i politici fanno le loro apparizioni pubbliche con le maschere. Il presidente coreano la indossa, per dare l’esempio, anche durante le conferenze stampa. In Corea ti fanno vedere i sorci verdi se non indossi una maschera.
Le maschere protettive in Europa
Al contrario, in Europa spesso si dice che siano di scarsa utilità, il che è una sciocchezza. Perché allora i dottori indossano maschere protettive? Occorre cambiare abbastanza spesso la maschera, perché quando si bagnano perdono la loro funzione di filtraggio.
Tuttavia, i coreani hanno già sviluppato una “maschera per coronavirus” composta di nanofiltri che possono essere lavati. Si dice che possa proteggere le persone dal virus per almeno un mese. In realtà è un’ottima soluzione in attesa di vaccini o farmaci.
In Europa, al contrario, anche i medici devono farsele mandare dalla Russia per indossarle. Macron ha ordinato la confisca di tutte le maschere per distribuirle al personale sanitario.
Ma ciò che in realtà hanno ricevuto sono state delle normali maschere senza filtro con l’avvertenza che sarebbero state sufficienti per proteggersi dal coronavirus. Il che è una bugia.
L’Europa è sull’orlo del fallimento. A che serve chiudere negozi e ristoranti se le persone continuano a viaggiare in metropolitana o in autobus nelle ore di punta? Com’è possibile mantenere la distanza di sicurezza in quegli ambienti? Anche al supermercato è quasi impossibile. In situazioni di questo tipo, le maschere protettive
Si sta sviluppando una società divisa in due classi. Per esempio chiunque abbia un’auto di proprietà è esposto a meno rischi. Anche le maschere normali servirebbero molto se indossate dalle persone positive al test.
La questione “culturale” dietro le maschere protettive
Nei paesi europei molti non indossano una maschera. Ce ne sono alcuni che la indossano, ma sono asiatici. I miei connazionali residenti in Europa si lamentano del fatto che vengono guardati in modo strano quando la indossano. Anche qui c’è una differenza culturale.
In Europa esiste una cultura dell’individuo a faccia scoperta. Gli unici con una maschera sono i criminali. Ma ora, vedendo le immagini della Corea, mi sono così abituato a vedere gente mascherata che il volto scoperto dei miei concittadini europei è una visione quasi oscena per me. Vorrei indossare anch’io una maschera protettiva, ma ho qualche esitazione.
In passato la produzione di maschere, come quella di molti altri prodotti simili, è stata esternalizzata in Cina. In Europa non ci sono più fabbriche per la produzione di maschere.
Gli stati asiatici stanno fornendo a tutta la popolazione maschere protettive. In Cina, quando anche lì hanno iniziato a scarseggiare, i cinesi hanno convertito alcune fabbriche per produrle. In Europa nemmeno il personale sanitario le riceve. Finché le persone continuano a viaggiare in autobus o metropolitana per andare al lavoro senza maschere, il divieto di uscire di casa non servirà a molto. Com’è possibile mantenere la distanza di sicurezza sugli autobus o in metropolitana nelle ore di punta?
Una lezione che dovremmo apprendere dalla pandemia è l’urgenza di riportare la produzione di alcuni prodotti come mascherine protettive o medicinali e farmaci in Europa.
Il paradigma ideologico della reazione alla pandemia
Nonostante tutto il rischio, da non minimizzare, il panico scatenato dalla pandemia è sproporzionato. Neanche l’“influenza spagnola”, molto più letale, ebbe effetti così devastanti sull’economia.
Di cosa si tratta davvero? Perché il mondo reagisce con tale panico a un virus? Emmanuel Macron parla persino di guerra e di nemico invisibile da sconfiggere. Siamo di fronte a un ritorno del nemico? L’“influenza spagnola” si diffuse durante la Prima guerra mondiale. A quel tempo il nemico era davvero alle porte. Nessuno avrebbe associato l’epidemia con la guerra o il nemico. Ma oggi viviamo in una società completamente diversa.
Da molto tempo non ci sono più nemici. La guerra fredda è finita da molto tempo. Anche il terrorismo islamico sembrava essersi trasferito in paesi lontani. Esattamente dieci anni fa ho sostenuto nel mio saggio La società della stanchezza la tesi che viviamo in un’epoca in cui il paradigma immunologico, basato sulla negatività del nemico, ha perso la sua validità.
Come ai tempi della guerra fredda, la società immunologicamente organizzata è caratterizzata da una vita circondata da confini e recinzioni, che impediscono la circolazione veloce di beni e capitali. La globalizzazione elimina tutte queste soglie immunitarie per dare via libera al capitale.
Anche la diffusa promiscuità e permissività, oggi estesi in tutte le aree della società, rimuovono la negatività dell’ignoto o del nemico. I pericoli oggi provengono non dalla negatività del nemico, ma dall’eccesso di positività, che si esprime nell’eccesso di prestazioni, nell’eccesso di produzione e nell’eccesso di comunicazione.
La negatività del nemico non trova posto nella nostra società illimitata e permissiva. La repressione da parte degli altri lascia il posto alla depressione, lo sfruttamento da parte degli altri lascia spazio all’autosfruttamento volontario e all’auto-ottimizzazione. Nella società dello spettacolo, si guerreggia soprattutto contro se stessi.
La caduta delle soglie immunologiche
Bene, nel mezzo di questa società così immunologicamente indebolita dal capitalismo globale, irrompe improvvisamente il virus. Impanicati, costruiamo ancora una volta soglie immunologiche e sigilliamo i confini. Il nemico è tornato. Non combattiamo più contro noi stessi, ma contro il nemico invisibile che viene dall’esterno.
Il panico eccessivo nei confronti del virus è una reazione immunitaria sociale, e persino globale, al nuovo nemico. La reazione immunitaria è così violenta perché abbiamo vissuto a lungo in una società senza nemici, in una società di positività. Ora il virus è percepito come terrore permanente.
Ma c’è un’altra ragione per l’enorme panico. Ancora una volta ha a che fare con il ciberspazio. Quest’ultimo rimuove la realtà. La realtà viene vissuta in virtù della resistenza che offre e che può essere anche dolorosa.
Lo spazio digitale, l’intera cultura dei “mi piace”, sopprime la negatività della resistenza. E nell’era della post-verità, delle notizie false e tendenziose, sorge un’apatia verso la realtà. Ora succede che abbiamo un vero virus, e non un virus virtuale, che provoca uno shock. La realtà, la resistenza, torna a mostrarsi sotto forma di un virus nemico.
La reazione di panico dei mercati finanziari all’epidemia esprime anche quel panico che è già parte di questa attività. Le enormi turbolenze dell’economia mondiale lo rendono estremamente vulnerabili. Nonostante la curva in crescita costante dell’indice azionario, la politica monetaria delle banche centrali ha prodotto, negli ultimi anni, un panico latente che è esploso con l’epidemia.
Preludio a un “incidente” più grave?
Il virus probabilmente non è altro che la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ciò che il panico del mercato finanziario riflette non è tanto la paura del virus quanto la paura di se stesso. L’incidente si sarebbe potuto verificare anche senza il virus. Forse il virus è solo il preludio di un incidente molto più grande.
Žižek afferma che il virus ha inferto un colpo fatale al capitalismo ed evoca un comunismo oscurantista. Crede persino che il virus potrebbe far cadere il regime cinese. Žižek ha torto. Niente di tutto ciò accadrà.
La Cina sarà ora in grado di vendere il proprio stato di polizia digitale come modello di successo contro la pandemia. La Cina si vanterà della superiorità del suo sistema con ancora più forza. E dopo la pandemia, il capitalismo continuerà a fiorire ancora più vigorosamente. E i turisti continueranno a calpestare il pianeta.
Il virus non può sostituire la ragione. È possibile che anche lo stato di polizia digitale in stile cinese arriverà anche in Occidente. Come ha già detto Naomi Klein, la confusione è il momento più propizio per istituire un nuovo sistema di governo. L’affermazione del neoliberismo è stata spesso preceduta da crisi che hanno causato shock. È quello che è successo in Corea o in Grecia.
Il virus non distruggerà il capitalismo, e dunque?
Si spera che dopo lo shock causato da questo virus, un regime di polizia digitale sul modello cinese non si estenda all’Europa. Se ciò dovesse accadere, come teme Giorgio Agamben, lo stato di eccezione diventerebbe la situazione normale. In quel caso, il virus avrebbe raggiunto un obiettivo che nemmeno il terrorismo islamico è riuscito del tutto a ottenere.
Il virus non distruggerà il capitalismo. Non ci sarà nessuna rivoluzione virale. Nessun virus è in grado di fare la rivoluzione. Il virus ci isola e ci individua. Non genera alcun sentimento collettivo forte. Ognuno si preoccupa solo della propria sopravvivenza.
La solidarietà che consiste nel mantenere le reciproche distanze non è una solidarietà che ci permette di sognare una società diversa, più pacifica e più giusta. Non possiamo lasciare la rivoluzione nelle mani del virus. Speriamo che dopo il virus arrivi davvero una rivoluzione delle persone.
Siamo noi, persone dotate di ragione, che dobbiamo ripensare e limitare in maniera decisiva il capitalismo distruttivo, e anche la nostra illimitata e distruttiva mobilità, per salvare noi stessi, il clima e il nostro bellissimo pianeta.
Fonte: “El País”, La emergencia viral y el mundo de mañana, 22 marzo 2020.