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Il mio nome è Bond, James Bond: la difficile arte di dare un nome memorabile al proprio business

Un nome potrebbe salvarci la vita, ecco quello che Omero ha cercato di insegnarci nell’Odissea. Quando Polifemo implora vendetta contro “Nessuno” che l’ha accecato, i colleghi ciclopi lo dileggiano. Ulisse andrà incontro ugualmente alla sua punizione perché il suo ego non sopporta l’anonimato. Il nome è l’unico biglietto per l’eternità.

Eike Fuhrken Batista, un tempo l’imprenditore più ammirato del Brasile e oggi il più denigrato, usava mettere una “X” nella denominazione delle sue società, per dire che era capace di moltiplicarne il valore. Era un’esplicita citazione della parabola dei pani e dei pesci. Fino a un certo punto ha funzionato e poi non più. Meglio lasciar stare la religione.

Inventori, scienziati ed esploratori hanno dato il nome alle loro invenzioni e alle loro scoperte. Abbiamo il Bosone e il campo di Higgs, la macchina di Turing, il paradosso del gatto di Schrödinger e il più famoso di tutti: il teorema di Pitagora, la dimostrazione matematica di cui tutti han sentito parlare almeno una volta. Archimede Pitagorico è uno dei più riusciti adattamenti in lingua italiana del nome di uno dei personaggi più eccentrici dei fumetti di Topolino. Le inutili e spesso catastrofiche invenzioni del Pitagorico vantano centinaia di imitazioni nel cinema nella televisione e nella narrativa.

Negli Stati Uniti all’epoca d’oro del capitalismo gli imprenditori, allora bollati come “robber barons”, piuttosto che condividere con il fisco il loro immenso patrimonio, donarono ingenti capitali, esentasse, a scuole, università, musei, fondazioni e istituzioni culturali con la supplica, prontamente accolta, di dare il proprio nome all’istituzione beneficiaria. Infatti alcune prestigiose università americane non portano il nome del luogo o della comunità dove sono sorte, come avviene in Europa, ma portano il nome del capitalista benefattore. In pochi ricordano il nome del presidente degli Stati Uniti contemporaneo a Jane e Leland Stanford, ma sono davvero in pochi a non avere mai sentito parlare della Stanford University nel cuore della Silicon Valley.

Netflixed & co.

Alcuni nomi di iniziative, di servizi, di aziende particolarmente innovative e persino di eventi storici sono diventati nomi di uso comune, entrando così nel lessico quotidiano. Un business dominante che fallisce perché non riesce a star dietro a un concorrente che innova a ritmi furibondi, si dice che viene “netflixed”, assumendo come paradigmatica la vicenda di Blockbuster.

In inglese fotocopia si dice “Xerox copy” dal nome della multinazionale Xerox che ha costruito la prima fotocopiatrice. In realtà era stata l’impresa ad aver mutato il proprio nome in quello della tecnica di fotocopiatura, la xerografia, inventata da un fisico americano nel 1938.

Ridisegnare i confini di un collegio elettorale in un sistema maggioritario, per favorire un candidato, si dice gerrymandering, una parola nata dalla libera associazione di Elbridge Gerry, governatore del Massachusetts agli inizi del XIX secolo, e salamander (salamandra). Coventrizzare, che significa radere al suolo in modo repentino e cruento, viene dalla sorte toccata alla città inglese di Coventry spianata dalla Luftwaffe nel 1940.

Non c’è veramente modo di sottovalutare l’importanza di un nome nelle società moderne e nelle economie di mercato. Se un nome è breve, se non offende nessuna cultura o credenza ma la valorizza, se è onomatopeico e si ricorda benissimo può divenire una miniera d’oro per un’attività, una persona o una comunità. Oggi deve anche significare qualcosa in cinese!

Apple, attenti al quel nome!

Quando però si sceglie un nome per la propria attività bisogna stare attenti a non pestare i piedi a nessuno. Per esempio, è durata molti anni la causa intentata contro la Apple Computers (oggi solo Apple Inc.) dall’etichetta musicale dei Beatles, la Apple Records (Apple Corps). Un’intera voce di Wikipedia è dedicata a questa vicenda. Alla fine c’è voluta la Corte suprema per risolvere la disputa a favore di Apple Computers.

Una disputa che, però, è costata cara a quest’ultima: i Fab Fours, la più commercialmente valida band del mondo e la favorita di Steve Jobs, è rimasta fuori da iTunes, il più frequentato negozio di dischi del mondo, fino al 16 novembre 2010. Può sembrare un paradosso ma è accaduto per l’ostinazione dell’etichetta inglese, un’ostinazione che è costata 500 milioni di dollari alla Apple di Cupertino; tanto sembra che questa abbia pagato all’altra Apple di Londra per il diritto di usare il nome Apple. La stessa denominazione dell’iPhone ha portato Apple e Cisco sulla soglia di un tribunale.

Alla fine per tagliare la testa al toro Tim Cook ha deciso di nominare tutti i prodotti della casa della mela non più con l’ambiguo e prevedibile suffisso “i”, ma conApple” così da togliere di mezzo ogni possibile controversia sulla paternità del nome. Ecco che oggi abbiamo Apple Watch, Apple Music, ApplePay e non iWatch?, iMusic o iPay. Una soluzione veramente definitiva che Cook ha “copiato” dal competitor Google che da tempo incorpora il proprio nome in quello di ogni nuovo servizio o prodotto. Google è un nome così popolare da esser diventato un verbo che, di fatto, ha espropriato la locuzione “cercare su Internet”.

Ci sono però anche dei casi di civica convivenza. Nell’industria farmaceutica ci sono due Merck, una Merck americana (62mila dipendenti 22miliardi di dollari di fatturato) e una tedesca (40mila dipendenti e 11miliardi di euro di fatturato) che si sono pacificamente divise le sfere d’influenza. È un caso più unico che raro (dovuto anche a precise circostanze storiche), perché le controversie sui nomi commerciali e sui nomi in generale riempiono gli scaffali dei tribunali civili di tutto il mondo.

Kering

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Ecco perché nel mondo degli affari la scelta di un nome è diventato un vero e proprio rompicapo per via degli innumerevoli parametri che si devono tenere insieme per produrre un nome che possa funzionare senza nuocere. La holding francese del lusso conosciuta come PPR (Pinault-Printemps-Redoute ) ha impiegato degli anni e speso milioni di euro per approdare nel 2013 alla nuova denominazione di Kering, che è il quinto nome del gruppo. Indubbiamente un nome azzeccato. Le ragioni della scelta di Kering sono sintetizzate in un documento di 11 pagine che dovrebbe divenire un libro di testo nelle business school di tutto il mondo. Sono stati gli italiani della filiale di Milano di Interbrand a condurre lo studio che ha portato alla individuazione di questo nome. Sul suo sito (di Interbrand) si trovano degli importanti contributi per capire come approcciare la faccenda del nome.

The Economist”, con l’arguzia e l’humor riconosciuti al settimanale di Londra il cui il maggior azionista è adesso una nota famiglia italiana, ha dedicato un articolo dal titolo “Nine billion company names” al difficile lavoro di trovare un nome a un business. Ai nostri lettori offriamo una sintesi, a cura di John Akwood, dell’articolo.

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Nomi ispirati e nomi tristi

I nove miliardi di nomi di Dio (1953), dello scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke, racconta la storia di un gruppo di monaci tibetani che intendono scoprire tutti i nomi di Dio combinando tra loro non più di nove lettere di un alfabeto di loro invenzione. I monaci seguono una credenza secondo cui il mondo si estinguerà quando sarà compiuta questa missione. Lavorano a questo progetto da 300 anni e ne servono altri 15mila per completare a mano i nove miliardi di possibili combinazioni. Così decidono di noleggiare un computer per fare più presto. Il computer si mette al lavoro e quando elabora l’ultimo nome possibile, senza tanto clamore, le stelle iniziano a spegnersi: Il mondo ha iniziatoestinguersi.

Un giorno potremmo scoprire che una sorte simile potrebbe toccare al mondo degli affari, quando tutti gli slot disponibili per i nomi delle aziende saranno presi. Nelle economie occidentali, infatti, la creazione di start-up avviene a un ritmo forsennato. Anche le economie emergenti stanno diventando globali. Le imprese si accorpano in combinazioni vertiginose: l’imminente fusione dei giganti del beverage ABInBev/SABMiller metterà insieme decine di sussidiarie tra cui Anheuser-Busch, Interbrew, AmBev, South African Breweries e Miller Brewing.

Le imprese dedicano un sacco di energie a trovare dei nomi efficaci. Il nome è infatti il primo elemento a fare una buona o una cattiva impressione. I grandi nomi, come Google, si possono trasformare in verbi ed entrare nei vocabolari della lingua. I nomi deprimenti con “Monday” (per breve tempo è stato il nome di una società di consulenza) sono un drappo funerario sulla reputazione.

Trovare un nome può dare però il tormento, perché è proprio il sovraffollamento ad avere trasformato la ricerca di un nome in una missione impossibile. Ci si è messa anche la legge sul copyright a complicare le cose: occorre fare estrema attenzione a che nessuno possa rivendicare niente sul nome prescelto. Il maggiore responsabile è, però, Internet: tutti i nomi migliori e anche quelli lontanamente immaginabili sono stati registrati come domini web dagli speculatori.

Nomi inventati e surrogati di nomi

Un marchio riconoscibilissimo come Guinness è stato annacquato in Diageo

Il business dei nomi si è sviluppato in quattro direzioni che presentano tutte lo stesso limite: ampliano l’assortimento dei nomi disponibili senza aggiungere originalità. La prima è la moda dei nomi inventati senza alcun significato in una qualsiasi lingua conosciuta, ma hanno una qualche risonanza classicheggiante. Un esempio è Totvs, una casa di software brasiliana, con il latineggiante “v” per “u”. Il trend è iniziato con Zeneca quando nel 1993 si è separata da Imperial Chemical Industry, un’impresa chimica del Regno Unito, per diventare una casa biofarmaceutica. Anche Zeneca è stato coniato da Interbrand che ha lavorato su un nome che fosse compreso tra le lettere di inizio e fine dell’alfabeto (o viceversa), non più lungo di tre sillabe e che fosse facilmente ricordabile. Due recenti aggiunte al genere sono Mondelez International, produttore dei biscotti Oreo, già parte di Kraft, e Engie, il nuovo nome dell’utility francese GDF Suez. Questi surrogati di nomi, pur preferibili a un cocktail casuale di lettere dell’alfabeto, alla fine ottengono l’esito contrario da quello che si prefiggono: perdendo ogni significato palese, evidenziano la mancanza di anima quando invece vorrebbero mostrare il volto umano dell’impresa. Diageo imprigiona uno dei brand con più storia come Guinness in una parola totalmente insignificante.

Il boom tecnologico ha dato all’industria del nome un impulso enorme con un’incredibile immissione di neologismi: Google ha preso il suo nome dal termine matematico 10 alla centesima (un googol) e Tesla (il costruttore di auto elettriche) dall’unità di misura della densità del flusso magnetico. Ma ci sono anche un sacco di sciocchezze nel nome delle imprese tecnologiche. Troppe hanno un nome strambo (Yahoo!) o stucchevole (PayPal). Le imprese tecnologiche sono afflitte da imitazione terminologica o da mimesi da prodotto come la moda di incorporare la parola “buzz” (da BuzzFeed) o il suffisso “-ify” (da Spotify).

Nomi creativi che ne basterebbe la metà

La terza direzione vede l’inflazione dei nomi creativi, un po’ l’equivalente della moda della barba tra i giovani hipster anticonformisti. Si per scontato che siano l’opposto dei nomi che generalmente hanno le imprese: concreti piuttosto che astratti, accattivanti piuttosto che fiacchi. Invece come la barba degli hipster non accrescono il valore di chi li porta. Orange è stata probabilmente l’ultima impresa a nominarsi come un frutto. Ci sono adesso un sacco di imprese di servizi finanziari che si danno nomi seducenti (Wonga e QuickQuid) solo per far rimpiangere i bei tempi andati quando le banche prendevano il nome dei loro fondatori (Lloyds) o delle banali sigle (HSBC).

La globalizzazione non ha portato a quel rinascimento dei nomi che ci si poteva attendere. Mark Lee di Watermark & Co, un nome intelligente per una società di consulenza sul branding, sottolinea che quattro delle dieci più grandi imprese del mondo hanno la parolaCina” nel loro nome (es. PetroChina). Ai latino-americani piace la “X”, come in Cemex e Pemex. Eike Batist ha una “X” in tutte le sue imprese a significare che ha la capacità di moltiplicare il valore del capitale investito, ma poi ha fatto bancarotta.

Estremismo e buon senso

Le imprese stanno ricorrendo a mezzi ancor più disperati per uscire dall’affollamento dei nomi. Siamo arrivati ad assemblare lettere in un calderone verbale (PingStamp) o ad alterare parole d’uso comune tanto da farle sembrare errori (Kabbage), oppure ad appiccicare parole scollegate semanticamente (Digital Marmalade). La moda più irritante è quella di coniare dei nomi che sembrano scritti da un analfabeta: le lettere sono mescolate in modo arbitrario (Flickr). Si arriva pure a usare la e commerciale (&) senza alcun criterio evidente: Booz & Company, una società di consulenza, è stata acquisita (da PwC) e ha cambiato il suo nome in Strategy&.

Nel racconto di Clarke il programmatore del computer noleggiato dai monaci progetta dei “circuiti adatti a eliminare combinazioni ridicole”. Nel mondo degli affari la migliore difesa contro le assurdità è il senso comune. C’è ancora molta strada per esaurire l’equivalente di nove miliardi di nomi. Ci sono ancora tanti nomi buoni tra cui scegliere: Google ha scelto un nome intelligente, Alphabet, per la sua holding. Ma arrivati a dare un nome al sito web di Alphabet si sono imbattuti nel “nein” dei bavaresi di BMW, il già possessore dell’incedibile dominio Alphabet.com. Che cosa hanno fatto i mattacchioni di Google? Hanno comprato il nome di dominio abcdefghijklmnopqrstuvwxyz.com a cui poi è stato preferito il più ragionevole abc.xyz.

In realtà ci sono ancora un sacco di parole in tutte le lingue che sono buone e non offendono ancora nessuno. È meglio essere antiquati che assurdi: meglio Smith & Jones di qualcosa tanto per riempire le caselle dello Scarabeo. Le migliori imprese possono sopravvivere a nomi pallosi, ma attenzione un buon nome non può salvare un business palloso.

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