X

“Il mio Natale”: parla lo chef del Palato Italiano, Filippo Sinisgalli

A una settimana da Natale abbiamo chiesto allo chef del Palato Italiano, Filippo Sinisgalli, di farci condividere le tradizioni della tavola che gli sono più care, a partire dalla cena della vigilia.

Chef, tu sei un uomo del sud ed è quindi inevitabile partire dalla cena della vigilia di Natale, momento sentito più nelle regioni meridionali che al nord.

Uomo del sud sì e – fammi dire – orgogliosamente lucano. La mia è una terra di tradizioni semplici, soprattutto se penso allo stile di vita di qualche decennio fa e al paese di montagna dove per generazioni ha vissuto la mia famiglia. Per la cena della vigilia, considerata oggi “di magro” solo per l’astinenza dalla carne, noi consumavamo realmente un pasto leggero senza carne e molto spesso anche senza pesce, ma non per questo non ricco di simboli e valori. Oggi capita che l’opulenza di una tavola a base di pesce per la vigilia superi quella del pranzo di Natale. Il mio ricordo invece mi riporta a una cena che prevedeva – d’accordo – almeno tredici portate, per ricordare i dodici apostoli e Gesù, ma tutte a base di verdure diverse con l’aggiunta di un caciocavallo preparato verso maggio e conservato per l’occasione. Evitare la carne aveva motivazioni religiose e di rispetto, ma portava con sé il vantaggio di non arrivare appesantiti al pranzo del 25 che era davvero una prova per esperti fondisti della gastronomia.

So che la curiosità per la cucina è nata molto presto in te, ti ricordi perciò quando -nella tua famiglia- iniziavano i preparativi per il pranzo?

Se devo dirti quando iniziavano davvero i preparativi per il Natale, la cosa a cui penso non sono i pochi giorni prima del 25, quando cioè si lavorava alle specifiche portate, ma le tre settimane precedenti, quelle che partivano dal giorno dell’Immacolata. Natale iniziava lì: era il momento in cui i mercati brulicavano di prelibatezze di ogni tipo e delle quali si cercava di fare incetta. Abbondavano le carni con i maiali appena macellati o le salsicce di varie stagionature, capretti, agnelli e un intero mondo di prodotti. Si andava per mercati più che per negozi. Non è un caso se uno dei quadri che preferisco è proprio Vucciria di Guttuso. È un’immagine che mi fa rituffare in pieno nel mio Natale più intimo, fatto di tradizioni e consuetudini che si ripetevano ogni anno allo stesso modo ma che aspettavo sempre con grande desiderio. La visita ai mercati in realtà rappresentava molto più che un momento di acquisto: spesso lì si svolgevano trattative, si parlava di lavoro, infatti – almeno ai tempi in cui ero bambino – al mercato ci andavano “gli uomini di casa” e io… li seguivo passo, passo. Alla mattina prestissimo uscivamo. Il nonno, lo zio, il papà partivano per immergersi, di lì a poco, in febbrili trattative e il piccolo Filippo immancabilmente era con loro. Ammetto che più di una volta mi sono chiesto perché dovessimo proprio uscire di casa alle sei di mattina…ché d’inverno e in montagna ti assicuro che sembrava proprio un orario cattivo, ma dopo la prima sferzata di brividi è una domanda che ho sempre dimenticato: troppo attento a cercare di capire cosa si dicevano “i grandi”.

E quali affari trattavano?

Considera che allora tutti lavoravano la terra o allevavano bestiame perciò avevano ad esempio l’esigenza di fare la rotazione naturale dei campi; se avevi sfruttato il tuo terreno a grano, l’anno successivo potevi decidere di seminare erba medica e lo offrivi per le bestie di chi allevava capretti in cambio magari di carne che non fosse quella di animali da cortile che – bene o male – tutti avevamo. Ad altri poteva servire di mettere a dimora le sementi per arrivare poi verso febbraio, marzo al momento di trapiantare. Perciò gli uomini, intanto che facevano gli affari, tornavano a casa con le provviste “non ordinarie” perché degli acquisti quotidiani e soprattutto delle preparazioni si occupavano sempre le donne, almeno a casa mia.

Hai detto della cena della vigilia, quali sono altri sapori che per te significano “pranzo di Natale”?

Per risponderti fammi aprire una parentesi sui sapori del Natale di oggi. Rispetto a un tempo ora ho la possibilità di acquistare prodotti o materie prime particolari e preparare qualche piatto speciale per la mia famiglia. Supponiamo pure che mi venga bene anzi, oggi sarò generoso, immaginiamo che mi riesca molto bene: ci regalerà un sapore buono, una bella esperienza di gusto ma in fondo in fondo, nel giorno di Natale, io – Filippo – rischio di sentirlo come un piatto con poca storia. Sulla tavola del Natale che porto con me, quella carica di ricordi, arrivavano piatti diversi e tante conserve che erano state preparate mesi e mesi prima. Le giardiniere di mia nonna erano un tripudio di allegria e colori, gli asparagi selvatici, le melanzane e le zucchine in conserva, i peperoni cruschi pronti per la frittura.
Quello stock dei coperchi che liberava il sottovuoto nei vasi era un rumore che ti avrebbe regalato profumi e sapori di ortaggi custoditi lì a partire da giornate d’estate ormai lontane. Mia madre non voleva che aprissi i vasetti in anticipo allora, per tenermi buono, mi diceva che le conserve non erano ancora pronte. Oggi so che non era vero ma sono felice che me l’abbia detto: così la nostra tavola del Natale, oltre a regalarci molti buoni sapori, materializzava davanti ai nostri occhi i tanti mesi di lavoro portati avanti da tutta la famiglia, prima lavorando la terra e poi impegnandosi in cucina. Intorno a quella tavola e in ogni piatto c’era la nostra famiglia, la prima e più importante comunità e, nel giorno di Natale, era lì anche a celebrare sé stessa.

Una prospettiva che certamente fa riflettere sul “valore” che si attribuisce a un piatto. All’inizio però abbiamo parlato anche di performance da fondisti: chi vinceva la maratona?

Nel corso del tempo ci siamo sicuramente passati a turno lo scettro anche perché se iniziavamo con un sobrio bollito di gallina e scarola amara poi proseguivamo con pasta fatta in casa dove sul condimento non si lesinava di certo. Un classico dei giorni del Natale era quel risveglio mattutino al profumo di ragù… perché bisognava portarsi avanti! Le carni abbondavano così come le fritture fino ad arrivare a dolci di ogni tipo. E poi – chissà perché, io non l’ho ancora capito – arrivava la battaglia finale della frutta secca. In ogni caso, il vincitore vero non era il miglior piazzato alla maratona del Natale… quella era – sì – importantissima ma solo una delle battaglie.

È ovvio! Non vogliamo certo dimenticare Santo Stefano.

No, no, chi si iscrive alla competizione lo fa soltanto se è già certo di arrivare in forma a Santo Stefano. La medaglia spetta a chi sa onorare anche i degnissimi pranzi e cene degli “avanzi” che tra l’altro, per chi fa il mio mestiere, sono un momento di pura alchimia e divertimento.

Chef, come fai a restare così in forma?

Perché fortunatamente – in un anno – rimangono liberi 360 giorni. Mille auguri pieni di cuore!

Consulta il sito de Il Palato Italiano.

Related Post
Categories: News