La vera notizia, da un punto di vista geo-economico, è che la China Corporation con i suoi fondi sovrani, e non più con qualche facoltoso imprenditore, punta forte sul calcio, mettendo le mani sul sangue blu del football internazionale, il Milan, uno dei club più titolati al mondo e con un seguito straordinario di tifosi a tutte le latitudini, a dispetto degli ultimi anni di vacche magre. Difficile prevedere gli sviluppi, ma dall’ingresso nel Wto in avanti ovunque sono arrivati cinesi nulla è più stato come prima.
Dal punto di vista dei tifosi milanisti, che cosa può cambiare? Sarà davvero la svolta buona? L’operazione schiude grandi opportunità, ma si porta dietro qualche insidia. Vediamo. Il passaggio di proprietà mette fine a una pantomima che si trascinava da troppo tempo. Berlusconi ha ormai perso lucidità, non solo nel calcio, e del suo fiuto leggendario si sono perse le tracce: un tempo inventava i Sacchi e i Capello, ora dal cilindro escono gli Inzaghi e i Brocchi. Poi c’è il fatto che per stare seduti al G8 del pallone occorrono ben altre cifre di quelle che il presidente può o vuole mettere in campo.
Ma non è neanche del tutto vero. L’anno scorso il Cav. o l’ex Cav. ha messo mano portafoglio, affidando 80 milioni a Galliani che li ha sperperati comprando giocatori di seconda o terza fila, grazie ai quali la squadra è finita dietro il Sassuolo. Segno che la società è ridotta male: da museo degli orrori la vicenda del magazziniere marocchino, fratello di una delle mogli di Galliani, sorpreso a rubare le magliette. In questi casi, se non si ha voglia di fare pulizia, meglio passare la mano. Per non parlare dei figli di primo letto, Marina e Piersilvio, mai visti allo stadio ma sempre lì col ditino alzato a dire: basta con questo Milan, costa troppo, non possiamo permettercelo.
Ora, al netto di quanto incassato dI cinesi, Berlusconi esce di scena dopo 30 anni con un rosso di 500 milioni malcontati. Vi pare troppo per una campagna promozionale che ha fatto di Berlusconi l’italiano più famoso al mondo dai tempi di Mussolini? Chiedete alla Coca cola o a qualche altro big spender della pubblicità. Nel frattempo vedremo cosa sapranno fare, finalmente liberati dalla zavorra Milan, i piccoli Marchionne di casa Berlusconi. Se il buongiorno si vede dal mattino, allacciate le cinture. Quindi, come dire, la riconoscenza sta a zero. Resta il rimpianto, quello è certo, ma speriamo non troppo.
Attenzione ai cinesi. Quelli che li hanno visti in azione, come chi scrive, sanno che sono attentissimi al ritorno sul capitale investito e al rispetto delle regole di buona gestione. Insomma niente a che vedere con i plutocrati arabi o russi in cerca di visibilità personale da giocarsi su altri tavoli. Il rischio che abbiano il braccino corto esiste: del resto impegnarsi per un investimento di 350 milioni in tre anni, considerata la malinconica rosa attuale, significa collocare il Milan nel rango di media potenza europea. Meglio del presente, lontano dal passato. Un test significativo sarà l’impegno sul nuovo stadio, ormai imprescindibile per una società di alto livello (purché non lo costruiscano a Pechino).
Oppure potrebbero defilarsi rapidamente, constatata l’impossibilità nel calcio italiano di coniugare bilanci e risultati sportivi. Ma sembra una eventualità remota: qui si parla dei fondi sovrani del presidente Xi Jinping, non del signor Thohir. E comunque l’attenzione al conto economico non è affatto un male, qualunque tifoso dovrebbe sapere che senza la sostenibilità economica, prima o poi, viene meno anche quella sportiva. Gli americani hanno un modo di dire efficace: “How deep are your pockets?”. Quando le tasche profonde di Berlusconi e Moratti si sono svuotate è toccato loro passare la mano.
È probabile, per non dire certo, che i cinesi faranno affidamento sull’enorme capacità di assorbimento del mercato cinese, in termini di merchandising e sponsorizzazioni, per far tornare i conti. Sotto questo profilo, la base di partenza è buona: il Milan, settimo nella graduatoria sportiva, resta al secondo posto per fatturato da attività commerciali dietro la Juventus. Un sorpasso recente, effetto del diverso rendimento delle due squadre, dopo un primato durato per quasi tutta l’era Berlusconi. Insomma, ci sono le basi sulle quali costruire.
Tra le condizioni per fare andare bene le cose, c’è che i tifosi facciano sentire la loro voce. Si dice che una squadra di calcio appartiene ai suoi tifosi. In termini strettamente giuridici la cosa è priva di senso. In realtà è proprio così. Per una ragione più profonda del valore del brand o delle altre sciocchezze degli esperti di marketing. Per capirci: io compro magliette Lacoste perché annetto al marchio certe qualità, ma alla prima che si strappa o scolorisce cambio senza problemi. Avete mai visto qualcuno cambiare squadra per i risultati deludenti di una stagione? Quando mai, al massimo qualcuno non rinnova l’abbonamento allo stadio.
Quello che intendo dire, sempre per usare il linguaggio dei guru del marketing, è che in nessun settore merceologico, ammesso che il calcio sia una merce, esiste una grado di fidelizzazione così elevato come nel pallone. Senza questa fidelizzazione il valore di una società è quello della sala trofei e stop. Ora, anni di successi in tutto il mondo hanno in qualche modo abbassato la guardia della tifoseria rossonera, che solo di recente e di fronte alla conclamata incapacità di Galliani hanno iniziato ad alzare la voce. Anche la manifestazione davanti alla villa di Arcore si è risolta in una rimpatriata. I milanisti di lungo corso forse ricorderanno che ai primi anni Settanta l’allora presidente del Milan, Albino Buticchi, ipotizzò la cessione di Gianni Rivera.
Il mattino dopo, uscendo di casa, fu lesto a buttarsi dietro due cassonetti per sfuggire ai colpi di pistola di due hoolingans rossoneri poi scappati in motorino. Nessuna nostalgia di quegli anni, ovviamente. Ma, insomma, potremmo prendere esempio dai “cugini” interisti la cui storia travagliata ha reso molto più combattivi. Per esempio, in occasione dello scambio-truffa con la Juve tra Vucinic e Guarin non soltanto riuscirono a far saltare l’operazione, ma anche a far cacciare il dirigente nerazzurro responsabile.
L’episodio ha una sua attualità: si tratta di quel Fassone, con passato juventino e poi scarto dell’Inter, che si appresta a diventare amministratore delegato del Milan cinese. Diciamo la verità: non è un inizio esaltante. Per rimediare occorre affiancargli subito un direttore sportivo compente e rossonero doc. Le alternative – Maldini in primis, ma anche Boban o Costacurta – non mancano. Ma il grande popolo rossonero, autore della più grande migrazione per ragioni sportive della storia del calcio (120mila tifosi al Nou Camp, maggio 1989), dovrà tenere gli occhi aperti.