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Il metodo scientifico e la nostra innata tendenza ad evitarlo

Negli ambiti di applicazione del metodo scientifico capita spesso che, pur conoscendone tutti i principi, chi ha la possibilità di utilizzare gli strumenti migliori per l’analisi dei fatti, tenda a farne a meno, optando per l’istinto. Ma perché mai?

Il metodo scientifico e la nostra innata tendenza ad evitarlo

In un mondo perfetto, basterebbe il nostro primo incontro con il metodo scientifico – alle scuole elementari – per riuscire a fare i conti con la realtà combattendo ad armi pari. E invece il mondo è talmente distante dalla perfezione che, anche dopo aver fatto studi di un certo livello, arriviamo al paradosso di preferire armi spuntate piuttosto che tutto l’arsenale di cui disponiamo. Sia chiaro, il metodo scientifico ha i suoi ambiti di applicazione e non è il lume attraverso il quale illuminare ogni aspetto della vita, ma è proprio quando ci s’imbatte in palesi manifestazioni di scenari in cui è facile lasciarsi ingannare dall’intuito che nessuno dovrebbe avere dubbi sull’opportunità di utilizzo del metodo scientifico.

Purtroppo, guardare il mondo con gli “occhiali” della scienza, non solo non viene spontaneo, ma non è nemmeno appagante. Anzi, il più delle volte, la scienza ci svela aspetti che non avevamo considerato, complicazioni che ci allontanano dal raggiungimento dei nostri obiettivi, verità per niente romantiche o prospettive non rosee. Per questo motivo, decidere di utilizzare il metodo scientifico, quando è giusto utilizzarlo, comporta un grosso sforzo di volontà, oltre che mentale. Renderlo un meccanismo automatico prevede un lungo addestramento e, duole dirlo, finora non è stato il nostro sistema scolastico a farsene carico. Tutta la formazione in merito all’applicazione del metodo scientifico inizia – in genere – a causa di scelte fatte per passione da chi decide di intraprendere una carriera nel settore della ricerca scientifica. Eppure, il metodo scientifico non è materia per specialisti e nemmeno un argomento che possiamo permetterci di scartare dal nostro bagaglio culturale.

Ma vediamo, nel dettaglio, di cosa si tratta. Nella formulazione di Galileo Galilei, le tappe fondamentali del metodo scientifico sono:

– l’osservazione di un fenomeno
– la misurazione di tutto ciò che lo riguarda e che è misurabile
– la formulazione di un’ipotesi
– la verifica dell’ipotesi tramite un esperimento
– la formulazione della legge (tesi)
– la verifica attraverso la possibilità di ripetere l’esperimento ottenendo lo stesso risultato

Utilizzare il metodo scientifico per l’analisi dei fatti non significa ripartire ogni volta da zero con le osservazioni, le misurazioni, la verifica e tutto il resto, ma è sufficiente avvalersi delle ricerche già disponibili, facendo riferimento alla comunità degli esperti di quel particolare settore della conoscenza. Va anche detto che, nel tempo, la scienza si è evoluta e si è articolata in sempre nuove discipline rendendo difficile definire una precisa metodologia universalmente applicabile. Quello che invece non è mai cambiato è il ruolo fondamentale dei dati raccolti a sostegno di una tesi. I dati rendono valida una teoria finché non se ne raccolgono altri che sono in grado di confutarla. Insomma, l’ingrediente fondamentale di una prova scientifica è quello di essere supportata dai dati. Non ci sono dogmi, principi di autorità, né tantomeno presunzione di verità solo per aver seguito il metodo scientifico (sarebbe un processo fideistico). Il metodo scientifico non è sinonimo di assoluta certezza o verità. Non è il fine, ma il tramite. Tutto quello che invece è possibile fare con certezza è il rigetto di ipotesi scorrette, ovvero fornire le prove che i dati presi in considerazione sono in realtà falsi o non abbastanza solidi. Sembrerà strano, considerata l’imperfezione di questo metodo, ma un metodo migliore non è stato ancora individuato. L’intuito, il “sesto senso”, la semplice correlazione di dati, l’aneddotica, il principio di autorità, la fede, finora, hanno prodotto buoni risultati, ma sono stati statisticamente annientati da un bilancio che tenga conto anche dei fallimenti. Insomma, stabilire la validità di una teoria attraverso un procedimento scientifico, come quello proposto da Galileo, mettendola in discussione non appena siano disponibili nuove osservazioni e dati che possano confutarla, appare proprio il modo migliore di combattere contro ogni realtà apparentemente incomprensibile.

Eppure, ognuno di noi, compreso chi ha scritto e chi sta leggendo questo articolo, è tentato – quasi ogni giorno – di evitare di servirsi di questa “arma” così potente e così migliore delle altre. Lo facciamo quando ci convinciamo che il nostro rimedio casalingo contro una determinata malattia possa servire per curare amici o parenti che soffrono di quello che a noi sembra proprio essere la stessa patologia, lo facciamo quando pensiamo di poter confutare i dati statistici di vari studi, pubblicati su riviste scientifiche, solo raccontando la nostra unica e personalissima esperienza in merito a qualunque cosa ci sia capitato. Ancora lo facciamo quando c’innamoriamo delle nostre convinzioni e, se il parere degli esperti non collima con quello che preferiamo, ci appelliamo alla possibilità di una futura smentita da parte della scienza. Praticamente usiamo il metodo scientifico a nostro piacimento (fallacia del cherry-picking). Accettiamo tutto quello che meglio si adatta al nostro pensiero e tutto il resto lo tramutiamo in “tesi che prima o poi la scienza cambierà, come è accaduto in passato“. Il problema è che, nel preciso momento in cui facciamo riferimento alla storia della scienza – che è sicuramente talvolta tornata sui suoi passi – lo stiamo facendo senza dati a supporto delle nostre tesi, ma solo ed esclusivamente “a sensazione”. È vero che la scienza ha rivisto le sue posizioni in passato (nella storia recente, sempre meno volte), ma lo ha fatto ogni volta rimanendo nel perimetro del metodo scientifico, cioè utilizzando nuove osservazioni, nuovi dati, nuove verifiche, motivando le nuove conclusioni e spiegando gli eventuali errori precedenti. Soprattutto, il passaggio di consegne tra la vecchia tesi e quella aggiornata, è avvenuto senza anticipazioni di sorta provenienti dal sesto senso di singoli esperti o meno esperti.

Comfort zone e bias cognitivi, scorciatoie per le nostre decisioni

Tutti questi atteggiamenti antiscientifici sono assolutamente naturali, umani. Ognuno di noi è cresciuto attraverso abitudini e comportamenti che la nostra famiglia, la società, il nostro percorso scolastico ci hanno trasferito. Pochissimi sono i fortunati che vengono avviati dalla nascita ad un tipo di apprendimento immune al pensiero antiscientifico. In genere, il nostro inconscio è più che inquinato da pregiudizi, chiamati nel gergo degli psicologici, “bias cognitivi”, che tendono a radicarsi nella nostra mente allo scopo di risolvere problemi e arrivare alle soluzioni più velocemente, anche se questo significa non pensare e non agire nel modo corretto. Rimanere nella nostra comfort-zone è assolutamente appagante e ci libera totalmente da ogni stress psicologico.

Pensiamo alla metafora introdotta all’inizio dell’articolo: abbiamo delle armi a nostra disposizione nella battaglia contro la realtà che non conosciamo, perché preferiamo utilizzare l’arma spuntata dell’intuito o del sesto senso e non un arsenale di ordigni bellici di ultima generazione come quello rappresentato dal metodo scientifico? Perché ci ostiniamo a cercare un ago in una stanza buia andando a tentoni, col rischio di ferirci piuttosto che accendere il lume della ragione? Beh, è semplice: le armi tecnologiche o la lampadina che illumina la stanza ci obbligano ad accettare la realtà, che potrebbe non piacerci. Si tratta di mezzi per spingerci fuori dalla nostra comfort zone. A quel punto saremmo costretti ad affrontare le situazioni, magari ad impegnarci, a lavorare, a studiare, a sottoporci al giudizio degli altri, ad ammettere le nostre debolezze, le nostre mancanze.

Nella disciplina della psicologia sociale, il nostro atteggiamento antiscientifico è riconducibile a quella che viene chiamata “dissonanza cognitiva” ossia il fenomeno per cui, quando ci veniamo a trovare di fronte ad un contrasto funzionale tra opinioni e dati – rispettivamente quelle radicate in noi e quelli forniti dalla scienza – cerchiamo automaticamente di rimuovere o ridurre la causa del nostro disagio psicologico (a volte questo disagio tocca le corde dell’autostima). Questo può portare all’attivazione di vari processi elaborativi, che permettono di compensare la dissonanza, ma a farne le spese è, troppo spesso, la società. Basta osservare quello che è successo durante la pandemia di Covid-19: possiamo tuttora contare tante teorie del complotto quante sono le dissonanze cognitive nate in quel periodo. Ciascuna teoria non era altro che la manifestazione di un particolare conflitto di qualcuno, a cui aderivano tutti quelli che avevano, in comune con quella persona, lo stesso conflitto. Virus inesistente, virus come un raffreddore, vaccini che uccidono, vaccini che causano mali più o meno incurabili, untori prima cinesi, poi italiani, poi tedeschi, grafene, 5G, case farmaceutiche. Tutti pronti a spostare responsabilità e possibilità di azione al di fuori della propria sfera personale. Ergo una popolazione immobile e non disposta a fare la propria parte per il bene della società.

Un altro esempio di dissonanza cognitiva, molto più facile da cogliere, è quello rappresentato nella favola di Esopo “La volpe e l’uva”. Qui, la dissonanza fra il desiderio dell’uva e l’incapacità di arrivarvi porta la volpe alla conclusione che “l’uva è acerba”. Dal punto di vista della psicologia, questo insegna che è molto più facile negare qualcosa che smantellare un intero sistema di credenze mettendone in dubbio anche solo una (tra cui l’autostima). Un’altra dissonanza cognitiva molto comune è, ad esempio, il rifiuto, da parte di taluni consumatori di alcool e di altrettanti fumatori, della sterminata mole di studi scientifici che non concedono speranze alle loro abitudini, rilevando i danni che i loro vizi possono causare. Per non parlare di quel tipo di dissonanza che si viene a creare quando scopriamo che le nostre comodità, i nostri agi, mettono a rischio l’ambiente o contribuiscono al cambiamento climatico. Piuttosto che intavolare un discorso, che preveda anche solo una progressiva rinuncia all’agio conquistato, preferiamo rifiutare completamente l’idea che gli scienziati di tutto il mondo siano concordi nel dire che è l’uomo ad aver causato questo cambiamento climatico. Quindi procediamo con il nostro lanternino alla ricerca di quello studioso (anche senza titoli), magari avanti con l’età, non proprio competente nel campo, senza un riconoscimento pieno della comunità scientifica, con conflitti d’interesse più o meno palesi, che si fa portavoce del nostro non cedere al conflitto. Ammettere il problema, significherebbe farne parte e noi siamo troppo abituati a sentirci migliori degli altri.

Infine, c’è da menzionare un ultimo aspetto di questa nostra innata tendenza ad evitare il metodo scientifico. Se il messaggio proveniente dall’esterno, che ci dovrebbe portare a percorrere la via della scienza, è in contrasto con il nostro prestabilito livello di accettazione, al conflitto interno si aggiunge quello dovuto al tipo di comunicazione. Ad esempio, quando rifiutiamo un linguaggio troppo tecnico, dei termini troppo astratti, una richiesta di attenzione troppo lunga o comunque una complessità che reputiamo non alla nostra portata, si verifica perfino un paradosso: più l’informazione è accurata e scientificamente verificata, più ce ne allontaniamo, accordando invece la nostra preferenza a un’informazione errata, ma più semplice da comprendere. L’illusione di chi s’intende di comunicazione è che sia sempre possibile trovare il giusto messaggio empatico, viaggiando sulle stesse lunghezze d’onda degli interlocutori. Purtroppo il primo ostacolo da rimuovere siamo noi stessi, intesi come destinatari del messaggio, perché esisterà sempre qualcuno con un livello di attenzione ancora più basso, con un’antipatia verso quel tipo di messaggio ancora più radicata, ancor più tranchant. La verità è che dobbiamo convivere con questo tipo di atteggiamento, operando una lenta sensibilizzazione al problema e puntando ad un obiettivo di cambiamento, sempre graduale, che parta da ciascuno di noi.

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