Nel 1916 André Breton, uno specializzando in medicina, lavorava nel reparto neurologico di un ospedale a Nantes. Qui leggeva avidamente Freud. Conobbe e corrispose anche con un soldato pacifista che aveva realizzato un’opera insolita. Aveva cucito insieme le uniformi abbandonate dai diversi eserciti. Voleva confezionare “una divisa neutrale”. Un’opera già intrinsecamente surrealista.
Il soldato, che si chiamava Jacques Vaché, si tolse la vita proprio a Nantes pochi mesi dopo la fine della guerra.
La storia, le motivazioni e il comportamento ribelle e anticonformista di Vaché, il “disertore dall’interno” come lo definì Breton stesso, colpì molto l’immaginazione del giovane medico e scrittore.
Si ritiene che Vaché sia stato una delle principali fonti d’ispirazione per concepire il Manifesto del Surrealismo pubblicato da Breton il 15 ottobre 1924. Un documento che non poteva che nascere nella congerie della guerra e del primo dopoguerra.
Erano state proprio i concetti di ragione, logica e realpolitik ad avere costituito il fondamento sul quale si era sviluppata la tragedia immane della guerra. La conclusione di Breton era che solo una rivoluzione della mente poteva cambiare l’esperienza e sottrarla al dominio della ragione e del potere. Bisognava andare oltre la realtà.
Il Manifesto di Breton fu all’inizio un’idea letteraria, ma divenne presto un movimento artistico che rivoluzionò tutte le forme della produzione e dell’industria culturale.
Però il Surrealismo non è soltanto legato all’arte. Ha anche un aspetto, diciamo, sovversivo nel suo anelito a trasformare il mondo e lo sprone a cambiare vita.
Il bisogno di surrealismo
L’adesione al Surrealismo risultò essere un atto liberatorio per tutte le forme di rappresentazione dell’esperienza umana, nessuna esclusa. Le arti visuali e la scrittura ne furono investite in modo differente, ma profondo. Neppure Breton aveva immaginato la portata della sua iniziativa.
E neppure aveva immaginato la durata di lungo periodo del Surrealismo quando le avanguardie che l’avevano preceduto avevano bruciato la loro spinta propulsiva nell’arco di un decennio.
È passato un secolo e il Surrealismo è ancora con noi con una vitalità che addirittura ha accresciuto la sua forza.
Come si spiega questa presa del surrealismo anche sulla nostra epoca? Ogni generazione sembra voler rifare il Surrealismo a sua immagine sottraendolo così all’invecchiamento.
Forse a determinare la sua permanenza nella cultura, non solo occidentale, è la complessità e il disordine della modernità. È forse quello stesso stato di realtà che aveva spinto Breton a ipotizzarne una fuoriuscita attraverso l’ironia, l’immaginazione, l’eccezione? È forse lo stato emotivo di disconnessione con il presente che offre all’approccio surrealista, con la sua sfida all’ordine esistente, il carburante che lo alimenta?
Una risposta definitiva non c’è, ma sta di fatto, che oltre Breton stesso, il Surrealismo è diventato un modo di pensare, di interpretare e di rappresentare il nostro tempo. E il nostro tempo sembra avere bisogno del Surrealismo.
Da Parigi al mondo
Come correttamente rileva Jackie Wullschläger, la critica d’arte del “Financial Times”, il surrealismo, nato dalla mente e dall’iniziativa di “uomini eterosessuali europei, seppur scollegati dalla tradizione culturale maschile bianca”, è diventato un movimento universale.
Scrive ancora la Wullschläger che “l’importanza delle donne e degli artisti e pensatori non europei e non bianchi nell’evoluzione del Surrealismo inizia finalmente a essere riconosciuta e mostrata”. E lo testimoniano anche le mostre che si stanno organizzando in tutto il mondo per questo centenario, in Cina, in Australia, negli Stati Uniti, in Europa. Per esempio, in Messico ha lavorato un gruppo femminista facente capo ad artiste come Leonora Carrington, Remedios Varo, Kati Horna.
Artisti queer e transgender hanno sempre fatto uso dei giochi surrealisti di identità e maschera. Si va dai sorprendenti autoritratti androgini di Claude Cahun degli anni ’20 ai dipinti di Christina Quarles che raffigurano corpi frantumati, fusi, intrecciati, con arti simili a tentacoli. Difficile dire quale identità e genere abbiano.
Appuntamento a Bruxelles
Il Centro Pompidou di Parigi, che possiede una delle collezioni più vaste di arte surrealista al mondo, ha organizzato la mostra più grande: “IMAGINE! 100 Years of International Surrealism”. Si tratta di una mostra itinerante che ha aperto a Bruxelles il 21 febbraio e si sposterà a Parigi il 4 settembre. La mostra andrà poi ad Amburgo e Madrid, per concludersi al Philadelphia Museum of Art nel 2026.
A Bruxelles c’è anche il Museo Magritte dove sono esposte 200 opere di uno dei maggiori e più ammirati maestri del Surrealismo.
Oltre a Magritte, il museo ospita anche una collezione di opere di altri artisti surrealisti, tra cui Paul Delvaux, René Guiette e Yves Tanguy. Ogni anno 250mila persone visitano il Museo Magritte a Bruxelles.
Ci sono moltissime altre mostre, come si diceva, che stanno per aprire in Europa, in Asia negli Stati Uniti e in Australia.
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Il lungo corso del surrealismo a un secolo dal manifesto: contributo di Michele Ragno
Quando André Breton – poeta e saggista francese, conosciuto ai più come il teorico del surrealismo – tornò, al termine della Seconda guerra mondiale, nella sua Parigi, trovò un mondo culturalmente cambiato.
Il surrealismo, a cui egli aveva dato una intellettuale forma con il Primo manifesto del Surrealismo nel 1924, sembrava ormai essere tramontato ed entrato nel dimenticatoio del passato. Sono passati cento anni da quel primo famoso manifesto e ora possiamo forse iniziare a tracciare le linee di questo percorso artistico.
Un’eredità duratura
Breton, morto nel 1966, non ha potuto vedere con quale spirito suggestivo questo movimento abbia impresso un segno indelebile all’interno di tutto il XXI secolo.
I Pixies – storico gruppo rock statunitense, apripista della scena alternative tra fine anni ’80 e primi anni ’90 – aprirono il loro album più famoso, Doolittle (1989) con un’ode a Un Chien Andalou, cortometraggio di Luis Buñuel (con produzione ed interpretazione dello stesso Buñuel e di Salvador Dalì), la cui sceneggiatura è apparsa nel Secondo Manifesto del Surrealismo (1929).
Da molti il film è considerato l’opera cinematografica di spicco del movimento surrealista: la forza delle immagini, collegate tra loro in modo assurdo, senza apparente connessione logica, ma in ogni caso in modo tale da disturbare visivamente e moralmente, era ciò che aveva colpito artisti come i Pixies (il cui stile musicale e di scrittura dei testi richiamano molto l’immaginario surrealista) o addirittura David Bowie, al punto che quest’ultimo utilizzò il cortometraggio come atto di apertura del suo tour del 1976.
Lo “stupefacente” surrealismo
D’altronde lo stesso Breton, nel suo Primo Manifesto, scriveva:
“Il surrealismo non permette a chi vi sia ricorso di lasciarlo quando gli piaccia. Tutto porta a credere che esso agisca sullo spirito al modo degli stupefacenti; come questi, crea un certo stato di bisogno e può spingere l’uomo a tremende rivolte. […] Le immagini surrealiste funzionano come quelle dell’oppio che non è più l’uomo a evocare, ma che ‘gli si offrono spontaneamente, dispoticamente. Egli non può congedarle; perché la volontà è senza forza e non controlla più le facoltà”
Il surrealismo resiste ancora perché gli è infatti intrinseco di natura un moto di rivolta all’ordinarietà, con la sua logica, mania di controllo e di programmazione.
Come dice Breton l’uomo, “questo sognatore definitivo”, è sempre più scontento della sua sorte: ha imparato a manipolare qualsiasi cosa, persino gli aspetti della sua stessa vita. I bambini nascono e crescono senza inquietudine e persino l’immaginazione, che prima non ammetteva alcun limite, è ora oggetto di esercitazioni, diventando anch’essa oggetto di una forma di schiavitù.
D’altronde il nucleo di pensiero del surrealismo prende spunto dalla critica nietzschiana al prevalere dello spirito apollineo nella società moderna. In un passo che sembra quasi scritto dal filosofo tedesco, Breton scrive:
“[L’]atteggiamento realista, che si ispira al positivismo, da san Tommaso ad Anatole France, mi sembra davvero avverso a qualsiasi slancio intellettuale e morale. Ne ho orrore, perché è fatto di mediocrità, di odio, di piatta sufficienza.”
È questa necessità di rivendicare lo spazio di massima libertà – intesa come potere creativo – a spingere il surrealismo verso l’onirico: “il delirio, le allucinazioni, le illusioni, eccetera, sono una fonte non trascurabile di godimenti”.
La sur-realtà bretoniana
Una traccia di questo mondo onirico è ancora presente nel cinema di David Lynch, l’ultimo dei surrealisti, che ad esempio in Twin Peaks, famosa serie televisiva degli anni ’90 spacca in due parti il mondo (il mondo comune e il mondo onirico delle due logge: la “Loggia Nera” e la “Loggia Bianca”) e i personaggi (con il ricorso al doppelgänger) per scavare nella psiche umana.
Il surrealismo è infatti un’impresa, che si prefigge eroicamente di superare i limiti:
“Viviamo ancora sotto il regno della logica: questo, naturalmente, è il punto cui volevo arrivare. Ma ai giorni nostri, i procedimenti logici non si applicano più se non alla soluzione di problemi d’interesse secondario. Il razionalismo assoluto che ci rimane di moda ci permette di considerare soltanto fatti strettamente connessi alla nostra esperienza. I fini logici, invece, ci sfuggono”.
Per strappare il velo di Maya bisogna prendere spunto dalle grandi intuizioni della psicoanalisi freudiana: il sogno – e con esso la sua analisi – diventa una forma di investigazione, di coscienza superiore svincolata dai limiti della mera logica e dell’esperienza.
Questa è la Realtà Assoluta bretoniana, la Sur-realtà nella quale “lo spirito dell’uomo […] è pienamente pago di ciò che gli accade”. Il surrealismo è dunque una risposta filosofica precisa, tanto che nel manifesto Breton arriva a riportarne una netta definizione:
Il surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d’associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita.
Oltre la realtà
D’altronde nel sogno l’uomo si libera di tutti i vincoli e dei controlli estetico-morali: l’angoscia kierkegaardiana, legata alla decisione, scompare. La possibilità smette di essere un limite e diventa una fonte di gioia: accettare la vita nella sua naturalezza di svolgimenti, nella sua stranezza e meraviglia.
Si tratta della stessa meraviglia che emerge nell’arte surrealista di Magritte – che fu colpito da Breton al punto da dire “i miei occhi hanno visto il pensiero per la prima volta” – quando sottolinea la distanza tra la vera realtà e la nostra rappresentazione (sensoriale, verbale, mentale) o in quella di Dalì, maggiormente incentrata sull’esplorazione del subconscio.
In entrambi gli approcci – uno sicuramente più lineare e riflessivo (quello di Magritte); l’altro più prorompente ed esuberante (Dalì) – il nocciolo della questione resta focalizzato sul mettere in discussione e oltrepassare la realtà convenzionale.
Del surrealismo oggi è rimasta traccia per la sua visione trasgressiva, capace di coinvolgere tutte le arti – si pensi anche all’importante ruolo nella fotografia contemporanea di Man Ray o del contributo letterario e teatrale di Artaud – e portare uno sguardo nuovo sull’arte, la società, l’uomo, la sua natura e le sue possibilità.
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Fonti dell’introduzione
Jackie Wullschläger, Surrealism at 100: does it still have the power to disrupt?, “The Financial Times”, 27 gennaio 2024
Nina Siegal, Surrealism Is 100. The World’s Still Surreal, “The New York Times”, 28 febbraio 2024
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Michele Ragno (Foggia, 1997) è un ricercatore filosofico. I suoi interessi principali riguardano il pensiero novecentesco, in particolare quello di Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger, i cui risultati sono in parte raccolti nel volume L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger, pubblicato per goWare (2021). Per lo stesso editore ha curato le lettere di Ludwig Wittgenstein a von Ficker (2022). Per AM Edizioni ha pubblicato David Foster Wallace come esperienza filosofica (2020), nel quale cerca di ricostruire la trama filosofica nascosta nelle opere dello scrittore americano.