Ad alta voce
Alphabet, la parent company di Google, è una società che crea tantissimo valore per i suoi fondatori, per i dipendenti e soprattutto per gli azionisti grandi o piccoli che essi siano. I grandi fondi pensione privati, dai quali dipende il futuro di milioni di lavoratori, posseggono ingenti quote di capitale di Alphabet e anche soggetti, sul momento impensabili nella veste di azionisti, hanno interesse che le attività di Google producano valore piuttosto che disperderlo in iniziative alquanto estranee al proprio core business e al proprio specifico campo d’azione.
Si sta parlando del lobbismo politico delle grandi imprese della nuova economia i cui interessi si sono estesi enormemente, mano mano che si stanno trasformando in immensi conglomerati media e industriali con interessi ampi e ramificati in molteplici settori. Il lobbismo è una necessità per le grandi imprese ed esiste dall’età della pietra. Però è un bene che sia in qualche modo monitorato, regolato e messo sotto controllo già alla fonte. Negli ultimi anni su temi caldissimi, come l’ambiente, l’immigrazione, la salute, l’educazione, la globalizzazione e soprattutto a causa dell’aumentato potere e della smisurata influenza delle aziende tecnologiche e dei social media su ogni aspetto della vita collettiva, il lobbismo sfrenato, a cui sembrano essersi convertiti queste ultime, inizia a creare preoccupazioni per i suoi costi e per le sue conseguenze politiche e sulla reputazione pubblica delle imprese che lo praticano.
L’incessante innovazione delle imprese tecnologiche precede di molto la presa di coscienza pubblica delle sue conseguenze e pertanto quando i legislatori iniziano a mettere mano a una questione legata a questa innovazione succede che la rilevanza economica di tale questione è diventata così notevole da scatenare qualcosa di sconvolgente.
Tutti gli uomini di Google a Washington e Bruxelles
Google investe una montagna di denaro in azioni di lobbismo politico. Nel 2016 il colosso do Mountain View ha speso 4,5 milioni di dollari a Bruxelles e 11 milioni di dollari a Washington per costi legati ad attività di lobby. Rispetto al 2014 gli investimenti in lobby di imprese della Silicon Valley come eBay, Twitter, Facebook sono cresciuti del 278% secondo un’inchiesta condotta da Transparency International. Su Business Insider si può trovare la classifica dei maggiori investitori tecnologici in attività di lobby negli Stati Uniti. Rimandiamo il lettore interessato a questa interessante pagina di facile consultazione.
Qualche hanno fa Google & Co. hanno clamorosamente sconfitto i grandi conglomerati media tradizionali (come Disney, Viacom, Time Warner, 21st CenturyFox, Bertelsmann ecc), che finora l’avevano fatta da padroni nelle sedi istituzionali, facendo clamorosamente naufragare la riforma del Digital Millennium Copyright Act promosso da questi ultimi per proteggere i media tradizionali dall’assalto dei nuovi media. Grazie a questo successo le imprese delle Silicon Valley e della costa occidentale hanno iniziato a scoprire l’importanza del lavoro di lobby per sostenere il loro sviluppo. Ed ecco fioccare gli investimenti, perché a queste giovani imprese può mancare tutto eccetto i quattrini. Su questi investimenti si sa poco e poco vien reso di pubblico dominio. Ma gli azionisti si stanno mobilitando perché questa zona grigia sia fatta emergere e portata alla luce.
Dietro le preoccupazione per lobbismo dei tecnologici non c’è solo una questione puramente economica o di controllo sul management, ma anche il desiderio di evitare che il lavoro lobbistico si indirizzi in una direzione sbagliata rispetto agli orientamenti politici e al codice etico degli investitori che tendono sempre più a far sentire la loro voce nella vita delle imprese quotate.
Ecco che un gruppo di suore di Baltimora, che hanno messo i loro risparmi nelle azioni di Alphabet, si sono improvvisamente trasformate da quiete titolari dell’equivalente di un libretto di risparmio in investitori attivisti. Con una mozione pubblica hanno sollecitato una maggiore trasparenza nelle attività di Google volte a influenzare le decisioni legislative che vengono prese a Capitol Hill, alla Casa Bianca e negli centri del potere pubblico a Washington D.C o a Bruxelles e Strasburgo.
Di seguito riportiamo, nella traduzione italiana di Maddalena Fontana, un articolo di Madison Marriage, asset management columnist del Financial Times, che ha raccontato la vicenda delle suore di Baltimora e altre storie di attivismo antilobbistico sulle colonne del supplemento finanziario del lunedì del quotidiano finanziario di Londra.
L’iniziativa contro il lobbismo politico
I più noti investitori attivisti, che premono per un cambiamento nel grande business, non si fanno più alcuno scrupolo nell’attaccare pubblicamente la strategia di un’azienda, il suo consiglio di amministrazione o il suo CEO.
La scorsa settimana, Alphabet, la società madre di Google, è stata messa sotto pressione da un attivista meno rumoroso ma ugualmente intransigente: un gruppo di suore di Baltimora. Vogliono che la compagnia tecnologica riveli più informazioni riguardo a quanto spende in lobbismo politico.
Le suore benedettine di Baltimora sono tra i 20 azionisti che hanno firmato una proposta che invita il colosso tecnologico a mettere in atto una riduzione dei propri investimenti per influenzare la l’attività legislativa a Washington. La proposta è stata respinta al meeting annuale di Alphabet, tenutosi alla fine di giugno, con 580 milioni di voti contrari contro 86 milioni favorevoli.
Alphabet non è l’unica società ad essere stata presa di mira per i suoi investimenti nel lobbismo politico. Lo scorso anno 63 delle più grandi società americane quotate in borsa hanno dovuto fronteggiare mozioni degli azionisti che chiedono una maggiore trasparenza sulle loro attività di lobbismo politico.
Si è trattato di un notevole aumento in pochi anni. Nel 2010 quando, secondo il Sustainable Investment Institute, un’organizzazione non-profit con base a Washington, furono presentate solo 5 mozioni simili. Nonostante le società quotate debbano dichiarare quanto spendono in lobbismo a livello federale, non hanno l’obbligo di condividere informazioni dettagliate su queste attività a livello degli stati o attraverso parti terze come le associazioni di categoria.
“Ci preoccupa che le società stiano dando vita a imprese terze per fare pressioni sui legislatori a livello sia statale che federale, iniziative che crediamo siano in contrasto con gli interessi a lungo termine degli azionisti” dice Mirza Baig, capo delle politiche d’investimento alla Avira Investors, uno dei maggiori gestori di fondi del Regno Unito.
“Questo è di particolare interesse nel settore minerario, energetico e sanitario dove è risaputo che gli intermediari hanno esercitato pressioni su questioni inerenti la legislazione connessa ai cambiamenti climatici e alla riforma sanitaria. Noi abbiamo appoggiato tutte le proposte di azionisti che mirano a portare alla luce questa problematica.”
Suor Susan Mika, che è di stanza in Texas ma lavora con il monastero a Baltimora, aggiunge che il problema del lobbismo è “molto importante” per le suore, che hanno una parte dei loro risparmi investiti in società come Alphabet. Il monastero di suor Mika a San Antonio, e altri 19 monasteri sparsi nel Nord America, nel 2016 hanno co-firmato una manciata di mozioni simili.
“Ovunque vada quel denaro, crediamo ci debba essere trasparenza in modo che possiamo vedere cosa le società stiano facendo, e se questo va contro quello che dichiarano pubblicamente,” dice. “Stanno cercando di annullare delle normative o di mettere pressione a personaggi politici? Ci sono alcune grandi istituzioni che ci hanno osteggiato su questo punto per un lungo periodo.”
La comparsa di società specializzate in lobbismo
La questione è sotto i riflettori grazie alla crescente preoccupazione pubblica riguardo l’influenza di associazioni imprenditoriali, come la American Legislative Exchange Council (ALEC) e la US Chamber of Commerce, sull’attività legislativa.
Negli ultimi cinque anni molte grandi società, tra cui Coca Cola, Ford e BP, hanno ritirato la loro adesione dall ALEC dopo che l’organizzazione ha subito pesanti critiche per aver aiutato a redigere normative controverse in riforme riguardanti il controllo delle armi, l’immigrazione e l’ambiente.
Ma l’ammontare che le società spendono per aderire ad ALEC o ad altre associazioni di categoria resta incerto. James Shein, professore di strategia alla Kellogg School of Management della Northwestern University di Chicago dice: “Il lobbismo politico è un campo che è stato volutamente avvolto nell’oscurità e nel mistero da parte di molti CEO e di molte aziende. Ho fatto parte dei consigli direttivi di molte aziende e spesso il presidente del consiglio non sa neppure quanto la compagnia spenda in lobbismo politico. Non c’è modo che gli azionisti possano sapere quanti dollari vengano spesi nel progetto favorito dal CEO, che potrebbe anche non essere nel miglior interesse della società o dei suoi azionisti.”
Fino a questo punto, poche proposte sul lobbismo politico hanno avuto successo. Dal 2010, solo 13 delle 563 proposte riguardanti l’attività politica hanno ricevuto l’appoggio di più del 50% degli azionisti delle società.
La maggior parte di queste proposte richiedono alle società di provvedere alla divulgazione annuale di quanto la società abbia speso in lobbismo, direttamente o indirettamente, quali organizzazioni abbiano ricevuto i pagamenti, di dichiarare a quali associazioni di categoria aderiscono e chi detenga il potere decisionale quando si tratta di destinare del denaro per il lobbismo.
Fluor, una società di ingegneria con base in Texas, e NiSource, una società di gas naturale con il quartier generale nell’Indiana, sono stati due gruppi ad aver dovuto fronteggiare nel 2016 delle vere e proprie ribellioni di investitori, quando più della metà dei loro azionisti ha appoggiato la richiesta di una maggiore trasparenza.
Gli investitori dietro a queste iniziative sono convinti di star guadagnando popolarità nelle società all’interno delle quali stanno esercitando pressioni per una maggiore trasparenza, così come lo stanno guadagnando sugli investitori più grandi e più influenti. A gennaio Allergan, la multinazionale farmaceutica che ha il brevetto del Botox, ha cominciato a divulgare più informazioni sulla sua attività lobbistica a livello centrale, sulle organizzazioni che appoggia e su quanto spende per le partecipazioni a queste ultime.
Adesso si guarda ai tre pesi massimi
Lo scorso settembre l’International Corporate Governance Network, un’influente organizzazione che rappresenta grandi investitori con un totale di 26 trilioni di dollari di asset, ha consigliato ai suoi membri di appoggiare le proposte degli investitori sulla divulgazione di informazioni sull’attività politica e lobbistica.
“Quando il lobbismo aziendale e i contributi politici avvengono nell’ombra, non è solo il valore delle azioni che è messo a rischio; anche la democrazia stessa viene indebolita,” ha dichiarato in quell’occasione il professor Shine che aggiunge: “Qualche volta le compagnie devono essere costrette con la forza a rivelare di più. Ma la gente si sta stufando della quantità di denaro che viene spesa per comprare le elezioni. Penso che avverrà lentamente e ogni anno un pugno di società rivelerà più informazioni riguardo le loro attività lobbistiche. E quindi altre compagnie si sentiranno costrette a farlo.”
I sostenitori di queste iniziative sono fiduciosi che i tre pesi massimi degli investitori, BlackRock, State Street e Vanguard, si uniranno alle richieste per una maggiore trasparenza sul lobbismo politico. Si sentono particolarmente incoraggiati dai segnali di supporto dalle tre grandi agenzie di voto per delega, ISS, Glass Lewis e Pirc, che consigliano i grandi investitori su come votare all’assemblea generale annuale. Tutte e tre le agenzie di voto hanno raccomandato agli azionisti di Alphabet di appoggiare le mozioni richiedenti alla compagnia di dettagliare le spese in attività di lobby.
Ma c’è un quadro piuttosto variegato all’interno della comunità degli investitori. BlackRock, la più grande società di investimento del mondo, l’anno scorso ha votato contro ogni proposta degli azionisti sul lobbismo politico negli Stati Uniti. La compagnia con base a New York è stata essa stessa messa sotto pressione per rivelare di più riguardo alle sue attività lobbistiche.
Per contro, State Street, il terzo più grande gestore di fondi del mondo, ha appoggiato proposte del genere per 12 società, tra cui Walt Disney, Alphabet, Facebook e ExxonMobil.
Lauren Compere, direttrice del coinvolgimento degli azionisti alla Boston Common Assets Management, che lo scorso anno ha chiesto a Verizon e Oracle di divulgare più informazioni riguardo le loro attività di lobbismo politico, dice: “Oracle e Verizon non hanno cambiato niente da quando la Boston Common ha depositato le sue mozioni. Ma credo che stiamo aprendo la porta a dei grandi investitori che vedono questa problematica come un vero rischio per il governo. Ci sono così tanti soldi sporchi su cui gli investitori non hanno controllo. E questo dovrebbe essere una preoccupazione per gli investitori più tradizionali.”
Heidi Welsh, direttore esecutivo al Susteinable Investments Institute, concorda: “Con tutto il denaro che sguazza nel sistema, e i diversi orientamenti politici, gli investitori tendono a volere più informazioni piuttosto che meno dalle società parte del loro portfolio. E se gli investitori sono realmente preoccupati per problematiche chiave come il cambiamento climatico, faranno particolarmente attenzione a ciò che le società cercano di ottenere. Significa che vorranno più responsabilità pubblica nelle spese importanti, non meno.”