La povertà, in Italia, non è sinonimo di disoccupazione. Ben 2,2 milioni di famiglie risultano povere nonostante almeno un componente sia occupato. In tutto, tre milioni di lavoratori vivono sotto la soglia di povertà malgrado ricevano una retribuzione regolare. E il numero sale a 5,2 milioni se invece del reddito mensile si calcola quello annuale.
Sono i dati che emergono dal XX “Rapporto sul mercato del lavoro e sulla contrattazione collettiva”, presentato giovedì al Cnel ed elaborato dal Consiglio Nazionale Economia e Lavoro in collaborazione con Anpal e Inapp.
Secondo lo studio, la diffusione della povertà tra i lavoratori è legata a vari fattori:
- bassa competitività del sistema economico italiano;
- minor numero di ore lavorate rispetto a chi vive in condizioni economiche migliori;
- precarietà dell’occupazione;
- impiego di manodopera poco qualificata;
- scelte di alcune aziende per contenimento dei costi.
Fra il 2014 e la prima metà del 2018, la crescita dell’occupazione, oltre che al part-time, resta ancorata ai lavori a tempo determinato, che sono aumentati del 35%, pari a 800mila lavoratori in più. Crescita moderata si registra per i lavori a tempo indeterminato (+460 mila), mentre il lavoro autonomo risulta in deciso calo (-117 mila).
Dal punto di vista della qualità del lavoro e dei contratti, il rapporto rileva come sia cresciuto il part-time involontario (soprattutto per le donne e nel Mezzogiorno) e come sia diminuita la qualificazione professionale e gli occupati con qualificazione medio alta.
Alla luce di questi numeri, gli esperti che hanno realizzato lo studio concludono che “appaiono coerenti le misure di sostegno adottate dai Governi negli ultimi anni: dalla social card al sostegno inclusione attiva passando per il Rei e arrivando oggi al reddito minimo e al reddito di cittadinanza”.
Secondo Tiziano Treu, presidente del Cnel, “dobbiamo però evitare di procedere solo con misure puntuali e guardare alla radice dei problemi lavorativi, se non vogliamo rassegnarci ad una crescita bassa. Il lavoro è scarso, è frammentato, di breve durata e spesso di scarsa qualità professionale. Con queste caratteristiche, ai bonus economici e alle misure reddituali devono affiancarsi misure strutturali di riduzione del cuneo fiscale, formazione dei lavoratori e degli imprenditori sui nuovi modelli tecnologici e lavorativi e il rafforzamento delle misure di welfare che hanno dimostrato di funzionare”.
Dalla sezione del rapporto dedicata ai premi di risultato e al welfare aziendale emergono infatti note positive. Fra il maggio del 2016 e il giugno del 2018, circa 15.639 imprese hanno fatto domanda per ottenere la detassazione del premio di risultato (l’88% in base a un accordo aziendale), per un totale di 33.869 istanze e per 5 milioni circa di beneficiari. Il valore complessivo del premio detassato annuo è superiore ai 3 miliardi, corrispondenti a 1.291 euro per ogni beneficiario.
Gli accordi sul welfare di dicembre 2017 sono stati 5.236, per un totale di 2.491.374 lavoratori beneficiari e un valore annuo medio stimato pro capite di 1.435 euro. Le misure di welfare vanno dalla previdenza complementare fino alle varie forme di sostegno al reddito e alle misure di educazione dei figli, passando per la conciliazione fra vita e lavoro.
Agli accordi sul welfare si aggiungono 400 accordi di partecipazione agli utili, per un totale di 1.057.403 beneficiari e un valore medio di 1.348 euro.