Il consenso politico ricercato con affanno dal governo populista tra i tanti “piccoli e belli” che affollano l’industria contribuisce alla stagnazione di lungo periodo dell’economia italiana. L’urgenza della crescita dimensionale delle imprese italiane insieme a quella dei loro investimenti privati tesi ad accrescere la produttività dei fattori è drammaticamente assente nella cacofonia declaratoria del governo del popolo. Il ricorso al bilancio pubblico per soddisfare i tanti “piccoli e belli” con facili elargizioni è la via maestra per illudere che si stia combattendo la povertà. Si vocifera di investimenti pubblici, ma si omette di riconoscere che sono le medie e le grandi industrie quelle che meglio possono sostenere gli investimenti pubblici o privati che siano e che creano stabile occupazione. L’Italia purtroppo difetta di capitalisti finanziari capaci di creare medie e grandi industrie e qualora esistessero sono marginali e al tramonto. Ne è testimone la Borsa italiana.
Nel 1910 Rudolf Hilferding pubblicò a Vienna il libro Dasfinanzkapital, tradotto in italiano nel 1976 (Il capitale finanziario) e in lingua inglese nel 1981 (Finance Capital). Il lungo periodo trascorso tra la prima pubblicazione in tedesco e le edizioni in altre lingue è forse dovuto alla tragica morte del suo autore. Questi infatti, che fu ministro delle finanze in due governi ai tempi della Repubblica di Weimar, fu poi costretto a rifugiarsi in Francia dopo l’avvento del nazismo, ma catturato dalla Gestapo morì a Parigi in un carcere della stessa Gestapo nel 1941. Si deve a Hilferding il tratteggio della figura del capitalista finanziario ovvero di colui che da imprenditore industriale individuale, passa ad assumere la veste della società per azioni al fine di diversificare le fonti esterne di finanziamento, abbinando al capitale di debito fornito dalle banche, il capitale di rischio ottenuto facendo appello al pubblico risparmio tramite la quotazione in borsa.
Nel panorama dell’economia italiana la figura del capitalista finanziario è sempre stata assai marginale. Basti pensare che, tra il 1951 e l’oggi, le società quotate alla borsa di Milano non hanno mai superato le trecento unità; che nel 2018 sono circa duecentocinquanta contro le oltre mille quotate a Parigi, le circa settecento di Francoforte, a Istanbul 381, a Tel Aviv 451 (Fese 2017). Si aggiunga che nell’arco di tempo 2000-2010 le nuove ammissioni a quotazione di società furono 170 nel caso dell’Italia, contro 633 in Francia, 234 in Germania e 1911 nel Regno Unito (Consob 2010, p. 30). Infine, dall’inizio della crisi finanziaria del 2007, non soltanto alcune società quotate hanno colto l’occasione, in presenza della caduta dei corsi azionari, di riacquistare le azioni proprie, promuovendo offerte pubbliche di acquisto, ma anche di effettuare il delisting della società stessa (13-15 società tra il 2015 ed il 2016).
La consolidata preferenza per l’indebitamento bancario insieme alla altrettanto consolidata avversione dei capitalisti finanziari italiani al ricorso del capitale di rischio per il finanziamento dei loro investimenti è un fatto ben noto che si trascina dall’avvio degli anni Cinquanta dell’altro secolo. Ne era ben conscio Donato Menichella, che nel 1951 manifestò ad un rappresentante del governo in carica il proprio rifiuto al raddoppio delle obbligazioni I.C.I.P.U. emesse a favore della Edison. Argomentò Menichella: “Perché l’Edison non vuol fare un’emissione di capitale (…) Ci pensino gli amministratori della Edison a trovare le vie per collocare l’aumento di capitale e non domandino a noi di toglierli dall’imbarazzo nel quale si sono messi. È veramente grave che il più grande gruppo italiano abbia chiesto ai propri azionisti solo pochi soldi, non abbia ottenuto un soldo di finanziamento dall’estero e tutta la sua politica finanziaria sia consistita nell’indebitarsi all’interno con le obbligazioni e verso lo Stato con i prestiti Erp ” (Menichella, Documenti e discorsi, 1951, pp.349-350). Da allora le cose non sono molto cambiate, insieme alla latitanza del capitalista finanziario, per altro avversato dal populismo, dai cantori politici del “piccolo è bello” e confuso nell’indistinto insieme dei “poteri forti”. Ma con il solo debito bancario anche i “piccoli e belli” non crescono dimensionalmente oltre ad essere esposti alla caduta in occasione di ogni turbolenza finanziaria.
Nel contesto di siffatto marginale e declinante capitalismo finanziario ingordo di debito, non deve stupire la caduta degli investimenti privati che dagli anni Novanta dell’altro secolo segnano la stagnazione dell’economia italiana
In occasione della nomina del nuovo presidente della Consob sarebbe opportuno chiedergli di informare il Parlamento sul perché i capitalisti finanziari sono come l’araba fenice: che vi siano, ognun lo dice, dove siano nessun lo sa. E se il governo del popolo ne ha qualche responsabilità.