Oltre 373 milioni di cittadini europei sono chiamati in questi giorni a partecipare ad uno dei più grandi esercizi di democrazia del mondo contemporaneo. Il rinnovo degli organi elettivi e di governo dell’Unione Europea avviene però in una stagione delle relazioni internazionali dove la guerra e la forza militare sono ritornati ad essere il primo elemento di confronto tra le potenze globali, soppiantando di fatto la preminenza delle questioni economiche e commerciali. In politica estera e nelle ipotesi di organizzazione di una difesa comune i tentativi di convergenza tra gli Stati europei rimangono ancora molto distanti, rendendo così nel mondo la posizione dell’Ue sostanzialmente marginale. Antonio Varsori, professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Padova e, tra i vari incarichi, associate fellow del Cold War Study Centre della London School of Economics, è uno dei maggiori studiosi italiani del processo di integrazione europea.
Professor Varsori, in un mondo costellato di policrisi come definirebbe l’attuale fase europea?
“Mai come oggi l’Unione Europea vive una fase di grande difficoltà. In passato l’Unione aveva affrontato principalmente problemi economici, da ultimo quello portati dalla pandemia, ora si trova una guerra vera ai suoi confini. Oltre all’Ucraina, c’è un’altra guerra alle porte d’Europa, quella di Gaza, dagli scenari oggi imprevedibili”.
Tra i Paesi fondatori qual è invece lo stato di salute dell’europeismo?
“Più che di europeismo, parlerei dello stato di salute dei partiti e dei sistemi politici tradizionali in Europa. È da lì che nasce o si ferma lo spirito europeista. In Francia assistiamo ad una crisi profondissima del Partito Socialista, in Germania del Partito Socialdemocratico (Spd). L’Italia ha vissuto qualcosa di simile trent’anni fa con la fine della Prima Repubblica. Pensavamo fosse un’anomalia tutta italiana e ci siamo sbagliati. La crisi interna dei partiti produce effetti diretti sulle leadership europee”.
Semplifichiamo per Stati: che Europa vuole la Francia di Emmanuel Macron?
“Parliamo dell’idea dei francesi o di quella di Macron? Perché Macron cambia idea velocemente e anche radicalmente. Un giorno vuole rafforzare la Nato, poi vuole archiviarla, in Ucraina vuole la pace e poi minaccia una guerra diretta. Sul piano interno, Macron non ha una posizione politica forte, mentre più in generale la Francia sta subendo la perdita graduale della sua proiezione nel mondo, in primis nell’Africa Subsahariana”.
Mentre la Germania? La prima economia d’Europa sta vivendo una profonda fase di transizione industriale.
“La Germania ha di fronte grandi sfide per la tenuta della sua leadership industriale. La vera questione è che Francia e Germania hanno questioni interne molto serie da affrontare. E al di là della retorica, questa debolezza interna condiziona la politica europea in modo determinante”.
Le forze antieuropee la preoccupano più recente del passato?
“Direi di noi, in quasi tutti i Paesi europei si assiste ad un ripiegamento delle forze euro-ostili, che stanno diventando più moderatamente euro-scettiche. È difficile oggi trovare in Europa partiti e movimenti elettoralmente rilevanti, al netto di Alternative für Deutschland (Afd) in Germania, che vogliono la fine dell’Unione o l’uscita dall’euro”.
Cosa potrà unire gli interessi degli Stati europei per trovare le basi di un nuovo processo di integrazione?
“Sull’economia il documento presentato nelle settimane scorse da Mario Draghi ha ricevuto un grande interesse. I grandi cambiamenti che l’industria europea dovrà affrontare potrebbero essere la nuova piattaforma comune per nuovi step di integrazione. L’Europa a 27 però faticherà anche in campo economico a trovare accordi validi per tutti. Per questo l’integrazione nell’Unione dovrà progredire nella forma della cooperazione rafforzata, così come è avvenuto con l’euro. Chi è non d’accordo non partecipa, gli altri Stati membri si accordano”.
Se la politica attuale è prettamente di stampo leaderistico, vede all’orizzonte una generazione di possibili leader europei in rampa di lancio?
“Sinceramente no, ed è una questione collegata alla debolezza di Francia e Germania. Rimane dunque fondamentale il ruolo che avranno le due grandi famiglie politiche europee, i Popolari e i Socialisti. Nelle seconde linee non vedo nomi in rampa di lancia, nemmeno nella Cdu/Csu in Germania, mentre in Francia non mi sembra che Macron voglia ancora trovare un suo delfino”.
È ottimista rispetto alle capacità dell’Europa di trovare uno spazio di manovra politica nelle relazioni internazionali, stretta così come è tra le superpotenze militari globali in movimento?
“In Medioriente l’Europa conta meno dell’Iran, della Turchia, dell’Arabia Saudita e anche del Qatar. In un quadro più ampio, dobbiamo aspettare gli esiti delle elezioni negli Usa. Se dovesse vincere Trump l’ipotesi di un depotenziamento della Nato sarebbe reale. E in quel caso l’Europa sarebbe in grado di accollarsi maggiori oneri finanziari e soprattutto militari in Ucraina? Le opinioni pubbliche europee fino a che punto sarebbero disposte a seguire questa linea?”.
Un’ulteriore escalation della guerra in Ucraina sarebbe insostenibile per gli equilibri europei?
“Probabilmente sì, almeno guardando le posizioni dei partiti nazionali. In Italia, il M5S è contrario all’invio di armamenti, la Lega rimane molto ambigua sull’argomento, il Pd ha al suo interno voci contrastanti, pensiamo alla posizione di Marco Tarquinio. In Francia la Le Pen è molto tiepida sul sostegno all’Ucraina. In Germania ci sono forze pacifiste molte radicate nella società”.
L’europeismo italiano è in buona salute?
“Stando alle dichiarazioni pubbliche dei leader di partito direi di sì. Nessuno chiede più apertamente l’uscita dall’Unione Europa, ci si limita a contestazioni più leggere. Però, si sa, in politica e soprattutto in Italia le cose possono cambiare velocemente”.