C’è un passaggio-chiave nella Relazione 2015, presentata da Tito Boeri, laddove il presidente dell’Inps sembra rivolgersi all’Europa per perorare un cambiamento di linea politica sul versante della valutazione della sostenibilità dei sistemi pensionistici su cui, da decenni, l’Unione misura le virtù finanziarie dei bilanci degli Stati membri (tanto che il tema dell’età pensionabile rappresenta uno dei contrasti più seri e difficilmente superabili nella questione della Grecia).
Afferma Boeri che “la sostenibilità sociale di un sistema pensionistico conta non meno di quella finanziaria”. “Tanto che – prosegue – se si condannano i lavoratori a “pensioni da fame” occorrerà intervenire, successivamente (magari quando gli anziani diventeranno vecchi e disabili) con altri trasferimenti monetari.
Eppure, con le sue proposte (è corretto che il presidente di un Istituto previdenziale si sostituisca al ministro del Lavoro nel delineare un nuovo progetto di welfare?), Boeri entra in contraddizione con la principale istanza che tutta la letteratura previdenziale raccomanda da almeno mezzo secolo, da quando la demografia, un tempo vassalla degli input economici, oggi li condiziona in modo stringente.
Il Vecchio Continente – l’Italia innanzitutto – continuerà a essere investito da un ciclone demografico che renderà insostenibili e iniqui (per quanto riguarda i rapporti tra le generazioni) anche i modelli pensionistici più rigorosi. Per quanto concerne l’attesa di vita, i grafici si impennano. Alla nascita, per gli uomini, si passa da una media di 76,7 anni nel 2010 a 84,6 cinquant’anni dopo (in Italia da 78,9 a 81,1); per le donne, rispettivamente da 82,5 a 89,1 (in Italia da 84,2 a 89,7). A 65 anni, tra mezzo secolo, gli uomini vivranno in media altri 22,4 anni, le donne 25,6 anni (in Italia rispettivamente 22,9 e 26,1).
Oltre agli effetti dei trend demografici (completamente ignorati da Boeri) saranno le esigenze dell’occupazione – al netto dei flussi immigratori – a richiedere di allungare la vita attiva anche per assicurare trattamenti più adeguati. Ipotizzare, come fa Tito Boeri, una fuoriuscita – anziché una ricollocazione – dal mercato del lavoro per gli ultra 55enni disoccupati e una flessibilità, opportunistica e penalizzata economicamente, per l’andata in quiescenza, significa lavorare contro il futuro.
È doveroso, invece, accettare, sul piano culturale innanzitutto, che occorrerà lavorare più a lungo e investire, quindi, in politiche a favore dell’invecchiamento attivo, piuttosto che mandare in pensione persone ancora in grado di svolgere un’attività. Che senso ha, infatti, destinare a prestazioni assistenziali – peraltro modeste – risorse significative, anziché impiegarle in incentivi a favore di politiche attive per reintrodurre nel mercato del lavoro gli ultra55enni?