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Il divorzio tra la Fiat e Montezemolo in 10 atti: finisce un’epoca del capitalismo italiano

Il divorzio tra Luca di Montezemolo e la “nuova” erede della “vecchia” Fiat era più che prevedibile. Ma sorprende il modo, così lontano dai canoni di quella che fu la Real Casa. Ricapitoliamo le puntate precedenti:

1) Il primo agosto scorso, in occasione dell’ultima assemblea Fiat prima della fusione con Chrysler, scompare dal board in nome di Luca di Montezemolo. Decisione motivata dalla necessità di far spazio ad un “indipendente”. Per l’occasione John Philip Elkann tralascia di ringraziare il consigliere e, soprattutto, non fa cenno agli anni di presidenza di Ldm al Lingotto. Eppure, se nell’agosto 2004 Montezemolo, fresco presidente di Confindustria, non avesse risposto all’appello di famiglia, non sarebbe stato facile respingere il pressing di Giuseppe Morchio.

2) L’ora di Montezemolo si è manifestata, in pubblico, attraverso una serie di articoli ben informati di “Repubblica” da cui emergeva che non solo lui non aveva alcuna intenzione di far passi indietro dalla Ferrari ma proponeva una strategia alternativa per Maranello: quotazione ad Hong Kong dopo il collocamento presso investitori per lo più asiatici. In questo modo Ferrari sarebbe stata “protetta” dai canoni della governance Usa (e dal possibile ridimensionamento dell’impegno in F1 per compiacere o gestori) e lui si sarebbe ritagliato il ruolo di garante verso un mercato che promette di essere il più importante del secolo.

3) Nell’attesa del responso sui diritti di recesso da Fiat-Chrysler, ultimo ostacolo prima della quotazione a Wall Street, i contendenti hanno osservato il silenzio pubblico. Ma l’assenza di LdM al decimo anniversario di nozze di John Philip e Lavinia Borromeo la dice lunga sul grande freddo calato tra il neo leader del clan e quello che è stato, per dieci anni, il punto di riferimento delle sorelle Agnelli e delle vedove di Gianni ed Umberto.

4) A Monza, inseguito dalle voci di licenziamento, Ldm è passato all’attacco: a marzo, dice, ho dato la mia disponibilità a restare in sella per altri tre anni. E non crediate che la prospettiva di presiedere Alitalia possa cambiare i miei obiettivi: dalla Ferrari mi dovrete cacciar via.

5) Presto fatto. Sergio Marchionne, che alle arti della diplomazia preferisce la grinta del Midwest, non si è fatto pregare. Le parole di Montezemolo, dice, io non le avrei mai pronunciate perché sono consapevole che un ceo deve rispondere ad un board che, nel caso Ferrari, risponde ad un azionista, la Fiat, che vanta il 90% del capitale. Le performances aziendali sono brillanti, quelle sportive imbarazzanti. Ma, soprattutto, il manager Montezemolo deve obbedire alle logiche del suo azionista di controllo. Finora conveniva al Lingotto alzare un cordone sanitario per dividere Fiat tra Ferrari e così evitare il contagio tra una casa madre con una reputazione di qualità infima e performances finanziarie modeste ed il brand gioiello, il più appetibile del mondo. Oggi le cose sono cambiate: Fca (non più Fiat) è il contenitore finanziario di tanti brand che concorrono ad un risultato globale. La missione italiana è di qualificare Maserati, Alfa e nel suo piccolo “500” come portavoce del lusso made in Italy, supportati dal richiamo Ferrari. Se fino a ieri era importante che un miliardario di Dallas o di Shanghai non associasse Ferrari a Fiat, oggi lo è ancor di più che al contrario associ Ferrari a Jeep, Maserati, Alfa o, perché no, una “500” più chic di una mini.

6) Il vero confronto, però, avviene sulla governance. La nuova società, quotata a Wall Street, risponderà ad un board che deve dare affidamento ai grandi fondi già azionisti o presto soci. L’azionista di maggioranza, Exor, serve a garantire stabilità ma starà ben attenta a non valicare i confini dei poteri del ceo che risponde innanzitutto al mercato. Un caso Luxottica, in questa chiave, non si ripeterà.

7) Ora, ha commentato Montezemolo, la Ferrari “è ormai americana”. Anzi, peggio. Perché il cavallino rosso rischia la fine di Lamborghini filiale all’apparenza italiana di un colosso d’oltre confine, la teutonica Volkswagen, che concede limitata autonomia, certo non indipendenza, alla griffe emiliana. E ricorda, con una punta di acidità, che l’avvocato Agnelli a suo tempo rilevò Ferrari “per evitare che finisse nella mani degli americani”. Ma erano altri tempi.

8) E qui, ahimè, la disputa rischia di degenerare. Montezemolo, che dalla presidenza della Ferarri incassa circa 5 milioni di euro l’anno, avalla i peggiori fantasmi rispetto alla fusione, pur necessaria, tra il Lingotto e Chrysler. Marchionne lo tratta come uno dei più scarsi allenatori della Jeventus, una sorta di Maifredi (a suo tempo scelto proprio da LdM…).

9) E’ un grosso peccato, perché questo addio, logico e inevitabile, è un passaggio chiave nell’evoluzione del capitalismo italiano che segnala la fine di un’epoca, quella del capitalismo consociativo all’italiana, pieno di difetti ma che ha salvato il Paese in più di un’occasione. La realtà è cambiata: “L’Italia – ha detto in passato Marchionne – ha un complesso irrisolto con Fiat”. E’ un mito di ricchezza e di onnipotenza ma anche un potere sostenuto da aiuti pubblici e da difese varie, solo in parte restituite con gli investimenti nel Sud e un’occupazione ridondante, che si è tradotto in perdite in quasi tutti gli ultimi 30 anni. Infatti Marchionne è arrivato in Fiat, chiamato da Umberto Agnelli, quando la casa torinese era ormai “tecnicamente” fallita e l’ha trasfornata nel settimo gruppo autobolistico mondiale. 

10) Di quella stagione irripetibile LdM è stato uno dei simboli: brillante, intelligente, ambizioso, simpatico e di grande successo in pubblico. Un modello, assai più del maglioncino di Marchionne, workaholic e assai meno accattivante, almeno per gli italiani. Per dieci anni i due modelli hanno convissuto. Oggi non più. Ed è un peccato: qualcosa ci rimettiamo. Anche nei prosimi giorni potremmo rivedere Montezemolo, che nel frattempo si sta dedicando alla crisi Ntv, alla presidenza dell’Alitalia

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