La lettura, sia pure per grandi blocchi più che in ordinata sequenza, del bel volume curato da Luca Paolazzi e Mauro Sylos Labini (“L’Italia al bivio. Riforme o declino: la lezione dei paesi di successo”. Luiss University Press) mi offre il destro per ritornare su di una mia affermazione che, parecchi anni or sono, fece drizzare almeno le orecchie al mio uditorio e a qualcuno forse anche i capelli. A proposito del continuo appello alle riforme, esclamai: Basta con questa riformite! Uno degli organizzatori del convegno rimase così colpito dalla mia affermazione e dalle poche considerazioni con cui cercai di giustificarla che mi invitò a scrivere un libro sull’argomento! Poiché ho scritto pochissimi libri e sempre con la collaborazione di colleghi o di giornalisti, ebbi buon gioco nel declinare l’invito, reiterato anche per lettera, nei modi imposti dalla cortesia. In verità, ero anche spaventato dalla nettezza della mia asserzione che nella foga della discussione era andata ben al di là del mio vero sentire.
In effetti, non ero, né sono contrario alle riforme, ma sono ostile alla predicazione continua e ossessiva delle medesime, alla loro invocazione come taumaturgica soluzione di ogni nostro problema. Tutti coloro che hanno seriamente studiato i processi di riforma dove essi sono stati attuati, nei paesi emergenti come in quelli sviluppati, hanno riscontrato che provocano ex post una reform fatigue per i conseguenti costi non solo economici e sociali ma anche psicologici. Esiste, però, anche una reform fear che si manifesta ex ante quando lo spettro della o delle riforme comincia a materializzarsi e diventa argomento di dibattito, spesso astioso, sui media e di solitari tormenti individuali.
La predicazione continua di riforme, lungi dal promuoverne la realizzazione, accresce e diffonde la reform fear che si impadronisce di tutti coloro che dalle riforme hanno qualcosa da perdere; più incisive, più ampie e più numerose sono le riforme che vengono promesse, brandite o minacciate, più larga è la platea di coloro che ad esse psicologicamente resistono e si oppongono. Si deve concludere, allora, che le riforme nessuno le vuole? Niente affatto. Esse sono auspicate, richieste, pretese da chi non ne è toccato o addirittura spera di ottenerne un vantaggio; devono riguardare cioè gli altri, non noi. Spesso, per “venderle” sul mercato politico, ci si fa paladini delle riforme che non costano; anche quando sono senza oneri per il pubblico erario, il che raramente accade, esse costano all’individuo e ai gruppi che ne sono toccati se non nel portafogli, almeno nelle abitudini. La reform fear ne viene alimentata…
I più pensosi del nostro futuro come nazione puntualizzano che le riforme di cui abbiamo maggiore bisogno sono quelle strutturali, quelle in grado di cambiare i parametri di fondo dell’economia e della società, di restituire produttività e competitività al nostro apparato produttivo, di ristabilire un migliore equilibrio tra le ragioni della solidarietà tra gli uomini e quelle della libertà dell’uomo. Non appena si esce dalle altisonanti formulazioni, ci si accorge che è difficile prevedere come gli schemi concreti da attuare si riverbereranno su coloro che ne sono colpiti, quanto tempo richiederanno per produrre effetti, se l’equilibrio che genereranno sarà passabilmente stabile o richiederà altre riforme o almeno vari aggiustamenti… La reform fear aumenta ancora…
Si determina allora un atteggiamento schizofrenico: si parla continuamente e in una varietà di contesti di riforme strutturali, ma nel concreto ci si affretta a istituire commissioni, a organizzare convegni, a tuonare nei dibattiti, a partecipare ai talk show televisivi e ai vari fora sulla rete. Si esorcizza così il pericolo e si raggiunge spesso la conclusione che i costi sono elevati, i benefici incerti, i tempi non maturi, sicché è bene rinviarne l’attuazione…
Un’ultima considerazione sulla reform fear. Agli inizi del ‘900, le riforme erano la fissazione dei socialisti e dei popolari che, sia pure da diverse prospettive politico-ideologiche, avevano preoccupazioni e obiettivi di carattere sociale, mentre buona amministrazione e liberazione dell’economia dalla presenza dello stato erano le mete cui ambiva la destra. Oggi le riforme sono divenute il mantra di tutti, sia a destra sia a sinistra, col risultato che la reform fear non svanisce con l’alternarsi delle maggioranze e dei governi, anzi il tormentone riformista continua con revisioni, riesami e rinvii…
2. Attraverso disegni e progetti di legge, di non facile comprensione per il quis e populo, nel Parlamento italiano ne vengono varate di riforme (spesso incomplete), ma talvolta se ne differiscono gli effetti di qualche legislatura…; in tal modo la reform fear si attenua e lascia spazio alla sensazione auto-gratificante che il dovere di riformare è stato adempiuto, poiché una legge è stata varata, sebbene sia stata rinviata nell’attuazione a babbo morto oppure approvata senza copertura amministrativa, per non parlare di quella di bilancio di solito limitata a uno o due esercizi. Non appena i fatti economici, le organizzazioni sociali, gli enti internazionali che ci monitorano incessantemente e i soliti zelanti riaprono il dossier delle riforme strutturali si levano grida del tipo: “Abbiamo già dato, adesso tocca ad altri!” Invece, spetta comunque agli stessi o perché sono i più deboli che sempre pagano o perché sono i più furbi che continuano a evadere gli obblighi o a differire gli impegni nel lungo termine, invece che onorarli hic et nunc.
Gli italiani, si sa, sono stati plasmati dalla controriforma, non dalla riforma protestante; quindi per essi l’ortodossia e la conservazione fanno premio. Tanto è vero che appena una riforma è varata, se ne cercano i difetti e se ne trovano soprattutto sotto il profilo dell’equità. Quindi per inverare il proprio ideale di giustizia nel provvedimento de quo agitur si fa di tutto e anche di più per contro-riformare o almeno per rendere l’originaria riforma meno logica, più rispondente ai propri interessi, in definitiva più difficile da giustificare e gestire. Il Governo che uscirà dalle elezioni del 24-25 febbraio 2012 – se ne uscirà uno… – sarà occupato soprattutto a rifare ciò che ha fatto il Governo Monti; per quale motivo? Per la semplice ragione che la “strana maggioranza” si è rapidamente dimenticata dei voti di fiducia accordati sui vari provvedimenti e ha promesso in campagna elettorale abrogazioni, rimborsi e riduzioni di aliquote, oltre che condoni tombali e sanatorie edilizie. Persino il sen. Monti si è abbandonato a qualche promessa di alleggerimento fiscale nel corso della legislatura. Tutti immemori delle condizioni della pubblica finanza, della scarsa crescita potenziale del Pil e del fiero cipiglio dell’Unione Europea? Pare di sì, pur di rispettare il copione della contro-riforma…
Allora è vero che governare gli italiani non è difficile ma inutile? Forse sì, ma per la ragione opposta a quella comunemente accettata: Sono i governanti che fanno di tutto perché gli italiani, solleticati nei propri egoismi, si chiudano nella difesa a riccio delle rispettive posizioni e del “particulare”. A mio avviso, non si può tenere la popolazione per decenni sotto l’incubo delle riforme strutturali che tutta la classe intellettuale dei politologi, degli economisti, dei sociologi, spesso con grande sufficienza ammannisce e raccomanda dai più svariati fori. Le riforme, in particolare quelle di struttura, bisogna deciderle e attuarle rapidamente. Né si può realizzarle tutte insieme, per ragioni che vanno dalla capacità amministrativa di gestirle a quella della popolazione che ne è coinvolta e che deve adattare i propri comportamenti. E’ auspicabile che si scelgano le riforme che toccano gli interessi di più gruppi, in modo da evitare la critica di una discriminazione a danno di uno solo; al tempo stesso, però, bisogna evitare, se gli interessi che si toccano sono sostanziosi, che i loro portatori si coalizzino e rendano il cammino della riforma ancora più difficile. Comunque, salvo casi di marchiani errori, è necessario attendere almeno i primi risultati dei cambiamenti introdotti, per pensare di riformare le riforme!
Possiamo chiederci: Qual è il momento migliore per dare luogo a una stagione di riforme strutturali? Dopo uno shock. Si veda la Germania con l’unificazione dopo la caduta della DDR, la Polonia con il crollo del regime comunista, il Cile con la fine della dittatura di Pinochet. L’Italia con la liberazione del 1945 eliminò in gran parte la sovrastruttura corporativa e autarchica, abbracciò la liberalizzazione nel commercio internazionale, ricostruì il Paese e ne trasformò l’economia da agricola a industriale. Successivamente, ha avuto solo cicli inflativi e di bilancia dei pagamenti, da cui è uscita con strette creditizie e svalutazioni o deprezzamenti del cambio sino all’adozione dell’euro. Un altro shock avrebbe potuto essere il terrorismo con i suoi anni di piombo, ma esso funzionò al contrario, portò cioè ad aggravare gli squilibri esistenti nella pubblica finanza per mantenere sindacati e lavoratori al di qua della barricata attraverso la spesa pubblica. L’entrata nell’Eurozona poteva costituire uno shock per rendere competitiva la nostra economia senza la manipolazione del cambio, ma ciò non è accaduto. Anzi, si è sviluppata la convinzione che la moneta unica conferisse una garanzia collettiva al nostro debito pubblico (oltre che a quello greco, portoghese, ecc.), tanto da farlo scambiare o emettere a condizioni non diverse sostanzialmente da quello della “virtuosa” Germania. Da qui è nata la convinzione che quanto era stato fatto implicitamente ed erroneamente dai mercati potesse essere replicato volontariamente attraverso la comunitarizzazione, in tutto o in parte, dei debiti sovrani dell’Eurozona attraverso gli eurobond.
3. Che l’Italia sia da un quindicennio in uno stato di sostanziale stagnazione è indubbio, che sia la produttività del lavoro sia quella totale dei fattori sia insoddisfacente o negativa è indiscutibile, che la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, stia raggiungendo livelli allarmanti, anche se inferiori a quelli spagnoli, è innegabile. Da parte di tutti si invoca la crescita, ma questa non si materializza, al pari della pioggia, solo perché la si invoca. La cura ancora una volta raccomandata, sono le riforme. Scrivono due economisti del Fondo monetario internazionale nelle conclusioni del loro lavoro: «L’Italia abbisogna di riforme ad ampio raggio (comprehensive servizi pubblici locali, le barriere all’entrata, gli investimenti nelle infrastrutture produttive. Ovviamente, per il lavoro si insiste sull’ulteriore flessibilità, sulla contrattazione a livello aziendale, sulla preferenza per l’aumento dell’occupazione rispetto a quello dei salari, sulle politiche attive nel mercato del lavoro, in particolare per le donne; per la tassazione si raccomanda lo spostamento dell’onere dal lavoro e dall’impresa al consumo. Manca qualcosa a questo impietoso elenco? Forse sì, il miglioramento del capitale umano cui, salvo sviste da parte mia, non si dà grande importanza, anche se si citano le nostre modeste performance nell’indagine P.I.S.A. Secondo le simulazioni fatte da Lusinyan e Muir, le riforme attualmente avviate in Italia potrebbero potenzialmente accrescere il Pil reale del 53/4 % nei prossimi cinque anni e del 101/2 % nel lungo periodo. Anche prendendo questi esercizi con ogni cautela, non si può negare che, alla luce della inconcludente tornata elettorale del 24-25 febbraio, se si torna indietro su quanto è stato fatto, i vantaggi in termini di Pil mostrati dalle simulazioni rimarranno consegnati alla carta, non alla storia…
L’Italia insieme con buona parte della vecchia Europa ha bisogno di tornare ad avere una crescita minima – diciamo in media tra l’1 e l’1,5 % – se non vuole arretrare troppo velocemente nel concerto delle nazioni. Tuttavia, possiamo guardare nuovamente, come alcuni decenni or sono, alla crescita come al deus ex machina che risolve ogni tragedia euripidea?
La risposta potrebbe essere negativa se si segue Robert Gordon, secondo il quale la crescita negli ultimi 250 anni potrebbe essere un episodio unico nella storia dell’umanità, poiché essa è stata in questo lungo periodo la conseguenza di tre rivoluzioni industriali: la prima ha tratto la spinta dalle caldaie a vapore, dalla filatura del cotone e dalle ferrovie; la seconda si è alimentata di elettricità, motore a combustione interna e acqua corrente in casa; la terza ha fatto affidamento sul computer e su Internet, con un impatto però sulla produttività che si è fortemente indebolito negli ultimi otto anni. La crescita della produzione pro capite negli USA sta rallentando dalla metà del secolo scorso e per la caduta della produttività continuerà a rallentare. Per le prime due rivoluzioni gli effetti si sono protratti per almeno 100 anni. La terza non sembra avere la stessa capacità propulsiva e in più spirano nell’economia americana, ma anche in altri paesi sviluppati come il nostro, sei venti contrari: a) la fine del dividendo demografico; b) la crescente diseguaglianza; c) l’equalizzazione del prezzo dei fattori, come frutto della globalizzazione e di Internet; d) i problemi educativi derivanti dai crescenti costi dell’istruzione universitaria e dal basso rendimento degli studenti delle scuole superiori; e) la regolamentazione a tutela dell’ambiente e l’imposizione fiscale; f) il sovra-indebitamento dei consumatori e del governo.
A differenza di Gordon, Krugman non è pessimista sul potenziale di crescita che potrà essere innescato, ad esempio, dall’intelligenza artificiale, ma è preoccupato per gli effetti distributivi che potrà generare. Possiamo ritenere che le due posizioni circa le potenzialità della terza rivoluzione industriale nell’alimentare la crescita tendano ad equilibrarsi? Certamente sì, sino a quando non si prende in esame il capitolo dell’energia… Secondo Tim Morgan,
la globalizzazione che ha separato i luoghi della produzione da quelli del consumo, la difficoltà di ottenere dati affidabili per interpretare la realtà e la dinamica dell’energia stanno preparando la tempesta perfetta e ponendo fine alla crescita. Sulla finanza v’è poco da aggiungere, considerato che essa è all’origine della Grande Recessione che si sta prolungando nel tempo al di là di ogni iniziale previsione negativa. Né ci si può addentrare nella complessità della globalizzazione o nella sempiterna inadeguatezza informativa dei dati che si raccolgono. Sull’energia va detto, invece, che l’EROEI, cioè l’energia ottenuta su quella impiegata, che inizialmente in Arabia Saudita era nel rapporto di oltre 100 a 1, oggi per lo shale oil and gas (idrocarburi da scisti) è di 5 a 1 e per le tar sands (sabbie bituminose) di 3 a 1. Gli Stati Uniti stanno cercando di riconquistare la propria indipendenza energetica estraendo con perforazioni orizzontali il gas dagli scisti. Ciò solleva problemi non solo ambientali, ma anche economici; si calcola che se gli americani dipendessero interamente dallo shale per gli idrocarburi, i costi dell’energia sarebbero pari al 16,7 % del GDP, contro il 2,4 % nel 1990 (EROEI stimato a 40:1). Il prezzo dell’energia, che negli anni ’70 ci procurò due shock, ha in serbo altre sgradite sorprese per la crescita e per il benessere? Le dita restino incrociate!