Sabato notte, comunque finisca il derby, la Juve avrà già archiviato la pratica granata per concentrarsi sulla trasferta in terra d’Ucraina, nella tana dei brasiliani di Lucescu travestiti da minatori dell’Est. E’ la condanna di una società proiettata nel futuro perché, come già disse il gigante buono, John King Charles, “Juventus vuole dire vittoria”.
Sabato sera, comunque finisca il derby, i tifosi del Toro si saranno già lasciati andare ai ricordi. Anzi, già si stanno allenando: il Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata in occasione del derby, come rito propiziatorio, ha previsto un apericena per l’antivigilia. Il programma? Il derby del 27 marzo 1982 quello dei “Tre primi, quarantun secondi e … da due a zero a tre a due”. E’ la condanna di un club che ormai si è abituato a vivere di ricordi. E, naturalmente, a nutrirsi dell’odio verso la Juventus.
La trama del derby, da mezzo secolo almeno a questa parte, sta tutta qui. Per la Juve è una partita destinata a contare solo nel caso, malaugurato, di una sconfitta. Altrimenti viene liquidato come un confronto qualsiasi, quasi un atto dovuto. Per il Torino, al contrario, è la partita della vita, l’occasione per rifarsi di torti con la sorte di cui la Juve non è responsabile, salvo che è difficile brillare all’ombra di una (pardon, tre) stelle luccicanti. Proviamo a capirli, i cugini. Non a caso negli anni di Calciopoli hanno dato il peggio di sé, accumulando sconfitte a raffiche contro il Frosinone o la stessa Juve (la Juve Stabia, però). Non si raccapezzavano in una situazione che, all’improvviso, li aveva proiettati addirittura sopra le maglie bianconere. Oggi ritrovano la loro dimensione di gufi: come quei colleghi che in sala stampa, alla notizia della vittoria del Chelsea contro lo Shaktiar Donetsk che complicava la vita alla Juve, si sono lasciati andare a scene di giubilo. Sono episodi che fanno bene al morale: la Juve non è stata odiata per più di un secolo a causa dell’antipatia dei suoi dirigenti o di qualche giocatore. No, non è mai stata una questione personale:la Juve è stata semplicemente un incubo infinito per qualunque avversario, perché vinceva, o lottava fino all’ultimo per vincere. Ieri come oggi. E come sarà domani.
Insomma, come diceva Giovanni Arpino, “la Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un «esperanto» anche calcistico, il Toro è gergo”. Ma attenzione: la via juventina al mondo passa per il tricolore. Nessuna squadra ha saputo rappresentare tanto, a livello di unità nazionale. Lo dimostrano i 15-16 milioni di tifosi bianconeri sparsi nella Penisola, ovunque la “seconda forza “ dietro la squadra locale (capita o meglio capitava anche a Torino). Ancor di più i 30 milioni di anti-juventini: “Uno scudetto vinto da altre è sempre perso dalla Juventus: e proprio questo è il fascino del campionato”.
L’aveva capito bene un illustre juventino: “E tu pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juve?”. Così Palmiro Togliatti, il segretario del Partito Comunista, rimbrottava Pietro Secchia, il falco stalinista del partito, con il suo berretto simil-Toro arrancava, in costante ritardo sull’evoluzione del Paese. Togliatti aveva intuito che la Juventus, quella che per Mario Soldati, altro bianconero illustre era sì” la squadra dei gentlemen, dei pionieri dell’industria, dei gesuiti, dei benpensanti, di chi aveva fatto il liceo: dei borghesi ricchi”, ma anche un mito per le masse del Mezzogiorno, un simbolo di efficienza ed un possibile terreno d’incontro tra capitale e lavoro, una maglia bianconera che accomunava Luciano Lama con l’Avvocato Agnelli più di mille trattative. Una squadra aristocratica, bella per definizione come sbottò prima di un derby Gustavo Colbacco Giagnoni, il mister del Toro di Paolino Pulici: “Guardateli – arringò i suoi negli spogliatoi – quelli della Juve sono belli, bravi e c’hanno i soldi. Ma noi abbiamo i c…”. Ma anche, se non soprattutto, una squadra operaia, in cui emigranti meridionali sono diventati, da Petruzzu Anastasi o Franco Causio piuttosto che tute blu di Lombardia, come Moreno Torricelli , salito sul tetto d’Europa con la grazia di un panzer.
No, non vale più , oggi, la divisione convenzionale di una Juventus aristocratica e di un Torino popolare. Ai miei occhi di torinese juventino, rampollo “traditore” di una famiglia tutta granata, il Torino d’oggi, costretto a cercarsi un presidente in quel di Milano (mentre i Lavazza ed i Ferrero tacciono) è il simbolo di una città che amministra con dignità l’eredità di un passato glorioso,i tempi in cui “a Torino si faceva la moda” o nasceva la Rai piuttosto che i telefoni. E in fabbrica, si guardava con sospetto anche agli immigrati del Polesine (non a caso juventini). E la Juve? Lasciamo perdere la sociologia. Qui si parla di passione. Quella che si prova per una donna, un’amante e una madre tutto assieme. La Juve è Venere che qualche volta ti mette le corna ed allo stesso tempo è la Madonna sempre vergine. Pagana e cattolica.
Odiata da chi sa che, comunque vada, il mondo si dividerà tra chi ama la maglia bianconera e chi la odia. Perché, scriveva l’indimenticabile Beppe Viola, spirito caustico per eccellenza. “La Juventus produce successo, quindi invidia. Ricordo di un professore di filosofia, juventino nel sangue. Quando la Juventus perdeva, il lunedì entrava in classe di pessimo umore e passava immediatamente alle interrogazioni. La vittima era sempre la stessa, tale Angelo Balzarini, noto sostenitore interista. Il mio povero compagno viene massacrato dalle domande impossibili e soltanto il suo sacrificio tradotto sul registro dall’immancabile «due» riusciva a far tornare la serenità nell’animo del professore. Angelo, poco prima dell’inizio del terzo trimestre, passò in un club juventino e fu promosso con ottimi voti”. Spero, anzi credo, che Balzarini Angelo abbia ringraziato per tutta la vita il suo educatore che l’ha riportato sulla retta via.
Ma lasciamo da parte l’Inter con i suoi scudetti di cartone. Batte alle porte il derby più antico d’Italia. Un pronostico? Speriamo di poter ripetere una delle frasi famose dell’Avvocato: “Nei momenti difficili, c’è sempre nel mio subconscio qualcosa a cui mi appello, e questo è il motivo per cui la Juventus ha vinto anche oggi”. Forza gobba.