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Il corpo 2.0 e il miglioramento tecnico dell’essere umano

Il corpo protesico, dal transumano al paraumano

Un tema sottotraccia di fortissimo impatto

Il libro della filosofa tedesca Karin Harrasser, Körper 2.0. Über die technische Erweiterbarkeit des Menschen, in procinto di uscire in edizione italiana (ed. goWare), si apre con una citazione della scrittrice austriaca, premio Nobel della letteratura, Elfride Jelinek: “Oggi quello che resta da dire sul corpo imperfetto è che la colpa è di chi lo possiede”. In effetti ci sono molte opzioni per migliorare tecnicamente e funzionalmente il corpo umano. La disponibilità di protesi altamente tecnologiche o di dispositivi indossabili, come i Google Glass, ha portato a un mutamento dell’idea stessa di corporeità. Gli interventi di miglioramento del e sul corpo non sono più intesi come la necessaria compensazione di una disabilità, ma piuttosto come ottimizzazione, potenziamento e accrescimento delle prestazioni del corpo nelle sue capacità fisiche e cognitive.

Si tratta di un tema di grandissima attualità nei suoi aspetti scientifici, tecnologici ed etici e il saggio della Harrasser, che sta lavorando a una storia culturale e teorica delle protesi, affronta il possibile passaggio del corpo protestico dal transumano al postumano di nicciana memoria. Di seguito riportiamo alcuni stralci della introduzione di Brunella Casalini e Federico Zappino alla edizione italiana del libro della Harasser:

L’antropologia della disabilità

In Devi cambiare la tua vita, Peter Sloterdijk racconta come nel discorso filosofico del primo Novecento si sviluppi una riflessione sull’uomo a partire dalle premesse di “un’antropologia della disabilità”, che definisce anche “esistenzialismo dell’ostinazione” e del “nonostante”, in cui è la volontà a trionfare su ogni avversità. Figura emblematica di questo “virtuosismo dell’esistenza” è Carl Hemann Unthan: nato privo degli arti superiori, Unthan imparò a suonare il violino con i piedi grazie a un’estrema perseveranza e all’esercizio costante, riuscendo a ottenere un enorme successo di pubblico in occasione delle sue numerose esibizioni in giro per il mondo, raccontate al termine della sua vita in un’autobiografia intitolata Pediscritto – testo scritto con un pennino tenuto con le dita del piede e battuto sulla macchina da scrivere. L’antropologia della disabilità che Unthan epitomizza è un’antropologia dell’ottimismo della volontà, in cui l’umanità si manifesta e si distingue – come osserva ancora Sloterdijk – non tanto per la capacità degli esseri umani di camminare in posizione eretta quanto per la tensione verso la verticalità, per la propensione a lavorare su di sé in vista del proprio perfezionamento.

Le storie di alcuni atleti paraolimpici contemporanei, come Aimee Mullins o Oscar Pistorius, si inscrivono d’altronde in questa stessa narrazione del culto della proattività, della resilienza e del costante esercizio su se stessi come chiave del successo, ma con una variante importante: il potenziamento delle proprie prestazioni avviene più attraverso la possibilità di “farsi operare”, letteralmente, che di “operare su di sé” – una variante che, nella visione di Sloterdijk, viene letta in termini di perdita e degenerazione rispetto al “passato”.

Il corpo 2.0

In Körper 2.0. Über die technische Erweiterbarkeit des Menschen, la filosofa tedesca Karin Harrasser dedica ampio spazio proprio alle figure degli atleti paraolimpici e prende le mosse, per la sua analisi, da un’impostazione critica tanto rispetto alla posizione di Sloterdijk quanto rispetto alle visioni ottimistiche della tecnica che vedono l’epoca attuale come quella di un corpo “2.0”, ossia di una versione tecnicamente potenziata del corpo umano. Il discorso di Harrasser sembra muoversi su due fronti: da un lato, da una prospettiva politica radicalmente anti-abilista, prende le distanze dalla concezione della disabilità come “mancanza” o “deficit” che presuppone, e a sua volta incessantemente istituisce, un confine facilmente tracciabile tra corpo abile e corpo disabile; dall’altro, sottolinea la necessità di guardare con occhio critico alle trasformazioni protesiche del corpo all’interno del contesto biopolitico neoliberale, considerandole anche come prodotto di una logica neocapitalista, qui intesa come una delle principali responsabili delle ingiunzioni all’auto-ottimizzazione.

Succede che le persone disabili non sono tutte supportate dalle grandi e quotate società sportive olimpioniche, bensì rientrano, statisticamente, nelle fasce più povere della popolazione. In quest’ottica, il discorso sulla disabilità all’interno delle società neoliberali consente quindi di illuminare alcuni aspetti molto importanti, da un punto di vista teorico-politico, sia della condizione dei corpi disabili sia di quella dei corpi – temporaneamente, contingentemente – abili.

Il confine da sempre labile e incerto tra queste due condizioni, infatti, si trova oggi a essere integrato da un nuovo discrimine: l’inclusione sociale della “diversità”, che sia corporea, sessuale o razziale, accade a patto che coloro che ne sono portatori mostrino un interesse e una propensione a investire sulle proprie potenzialità fisiche e cognitive, così da poter accedere alla gara della concorrenza e della competizione. I corpi vengono così a distinguersi non solo più in corpi abili e corpi disabili – distinzione che, ripetiamo, resta significativa in termini sia culturali sia socioeconomici –, ma anche in corpi “potenziabili” e “migliorabili”, e per questo degni di riconoscimento sociale, e corpi “dispensabili”, “a perdere”, che, come direbbe Judith Butler, non sono degni di lutto, e che pertanto sono più di altri esposti all’offesa, all’indigenza, alla solitudine, e dunque socialmente sacrificabili, e di fatto sacrificati. Il controllo sul proprio corpo, l’investimento su di esso, la sua capacità di prestazione e il mantenimento di una finzione di sovranità diventa pertanto l’elemento di discrimine innanzitutto tra gli stessi corpi disabili, che Harrasser, definisce qui “normalismo flessibile”.

L’evoluzione verso il transumano

A differenza della antropologia primonovecentesca, nella retorica che permea le figure e le storie degli atleti paraolimpici contemporanei la loro disabilità non svolge il ruolo di memento di una comune e inaggirabile vulnerabilità ontologica del corpo, ossia di quella vulnerabilità per la quale nessun corpo potrebbe sopravvivere, prosperare o muoversi in assenza di supporti relazionali, sociali, economici e tecnologici; a ben vedere, forclusioni retoriche come queste svolgono un ruolo di primo piano proprio nella massimizzazione della vulnerabilità dei corpi disabili, così da confermare che per quanto la vulnerabilità dei corpi possa essere ontologica, e dunque comune a tutti i corpi, essa si trovi però a essere differenzialmente massimizzata a seconda delle norme che governano la sua percezione culturale e la sua organizzazione sociale.

Eppure, non diversamente da quanto accadeva nell’antropologia della disabilità del primo Novecento, la condizione deficitaria di cui tutti dobbiamo prendere coscienza, a partire dagli esempi degli atleti paraolimpici, dovrebbe spingerci in direzione di un movimento verticale di autoperfezionamento che è ora, però, sostenuto dalla tecnica in direzione di un’infinita evoluzione verso il transumano. Come osserva Karin Harrasser, il corpo dell’atleta disabile assurge a una sorta di laboratorio, e diventa il corpo protesico per eccellenza, il più potenziabile e adattabile ai supporti tecnologici, il più adatto a un perfezionamento tecnico che consenta di amplificarne le possibilità evolutive.

Guardare criticamente alle contraddizioni della tecnica, nonché ai rapporti di forza del presente, non necessariamente coincide con una condanna della tecnica in sé, specialmente quando si trova a essere legata a doppio nodo a questioni così complesse come la disabilità. Ci sembra che il testo di Harrasser lo confermi. L’autrice, infatti, tenta di preservare il significato universalizzante della disabilità declinandolo in una direzione opposta rispetto a quella tracciata dall’antropologia della disabilità di derivazione nietzschiana richiamata da Sloterdijk, attraverso il ricorso alla figura del cyborg – cyb(ernetic) + org(anism) – teorizzata da Donna Haraway.

Harrasser tenta di recuperare la figura critica del cyborg nel quadro di una riflessione in cui la tecnologia è applicata a un corpo disabile, e non solo a un corpo abile. Si tratta di un’operazione non semplice, dal momento che il rapporto tra la tecnologia e i corpi disabili è da sempre un rapporto complesso: esterne o interne che siano, le protesi, nella storia della disabilità, hanno principalmente assolto alla funzione di normalizzare e correggere il corpo disabile, di riabilitarlo e di curarlo.

Da questo punto di vista, il rischio spesso denunciato dagli studi sulla disabilità è quello di rinforzare, mediante la figura del cyborg, il modello medico-individuale della disabilità, e dunque di perpetuare l’idea che il corpo disabile sia un corpo mancante e deficitario, che deve essere aggiustato. Per Harrasser, il problema sembra costituito piuttosto dal fatto che nell’immaginario contemporaneo il corpo (dell’atleta) disabile, e la sua integrazione protesica, siano implicati nel dominio delle tecniche di human enhancement, che, nella sua ipotesi, alimenterebbero una visione somatofobica, individualistica e competitiva.

Questo piccolo libro di Karin Harrasser sembra prefigurare la possibilità di ridefinire il corpo in modo da includervi molto di ciò che storicamente ne è stato escluso, tra cui innanzitutto le protesi come co-agenti paraumani, la cui azione si pone come condizione di possibilità di ciò che può un corpo. Dal soggetto in tensione verso la verticalità, Harrasser passa così a delineare un soggetto che è orizzontalmente preso in un mondo di agenti umani e non-umani che agisce e interagisce con lui, che cambia e si evolve insieme a lui, verso il quale è tenuto a una response-ability – intesa come capacità di rispondere, e di essere responsabile, una capacità di rispondere alla domanda dell’altro umano e non-umano, nonché di saper riconoscere la risposta che la propria azione riceve da parte del mondo umano e non-umano dal quale dipende. Trasformare la percezione di questa inaggirabile dipendenza, secondo Harrasser, è la sfida del corpo protesico alla fantasia gerarchica, ed escludente, dell’indipendenza.

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