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Il coraggio di cambiare, dal business alla società: un libro che fa riflettere

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Da pochi giorni è in libreria (disponibile anche in rete) un saggio importante per chi si occupa di direzione, comunicazione d’impresa o marketing e non solo di quelle. Si tratta di Brand Bravery. i dieci comandamenti del coraggio di Paul Kemp-Robertson e Chris Barth (GueriniNext con goWare per l’ebook).

È un libro importante non solo per l’esperienza che gli autori hanno maturato sul campo fin dal 2004 e per la quantità e la varietà di casi e di situazioni che analizza, ma anche per la tesi di fondo che avanza. Una tesi che non riguarda solo il mondo delle imprese e del business, ma anche la società e gli individui stesse. La tesi è che il coraggio è uno strumento contagioso per uscire dalla comfort zone e dalle logiche dei silos e dare spazio alla creatività.

Una risorsa sempre più strategica in un mondo in profonda trasformazione. Una risorsa che, però, può dispiegarsi solo abbattendo le barriere tra interno ed esterno, target e persone, dipendenti e clienti.

Dal libro abbiamo selezionato quattro estratti che riguardano la generosità, il target della tecnologia e la potenza del passaparola. Buona lettura!

La generosità come mindset

Te la ricordi la parabola della tribù messicana degli Huichol che ti abbiamo raccontato nell’Introduzione? Erano gli unici a credere che le doglie del parto dovessero essere condivise tra donna e uomo. La cosa si era tradotta nell’usanza che le donne, durante il travaglio, dessero degli strattoni alle corde annodate attorno ai testicoli dei loro compagni.

Sebbene tutto ciò possa suonare bizzarro, e perfino un tantino vendicativo, la cosa in realtà era intesa come un atto di generosità. Permetteva al maschio di condividere la spiritualità del parto. Insomma, un atto di estrema empatia e affinità.

Non intendiamo certo incentivare i marketer a sacrificarsi fino all’estrema sofferenza fisica. Semplicemente suggeriamo loro di trovare il modo di esprimere generosità nei confronti dei punti dolenti dei propri clienti. Tanto per capirci, siate presenti al parto, ma non sentite il bisogno di stringerveli al lazo, ecco. Fate vedere che capite cosa stanno passando e che ve ne fate carico preoccupandovi delle loro esistenze.

Fatelo gratuitamente, senza aspettarvi nulla in cambio: ne raccoglierete grandi benefici. La generosità conduce al dialogo, e fa crescere le PR. La generosità aumenta la felicità e il coinvolgimento dei dipendenti. La generosità fa crescere la reputazione di un brand. E, soprattutto, rende il mondo migliore.

Le due eccezioni alla generosità

Ci sono due accezioni del termine «generosità» sul dizionario: gentilezza/comprensione e portata/valore. In entrambi i casi, si tratta di dare più di quanto sia dovuto o qualcuno si aspetti. Dal punto di vista dell’industria del marketing, ciò si traduce in generosità di obiettivi e generosità creativa. Ovviamente, non è che dovete dare via tutto.

Non devono essere vani atti di incauta munificenza che potrebbero portare alla bancarotta il vostro business. Al contrario, un atteggiamento mentale generoso, customer-first, genererà servizi di pragmaticità creativa, risorse condivise ed esperienze inattese. A loro volta susciteranno reciprocità e un’ottima reputazione.

Se questa chiacchierata sul karma commerciale ti sembra zuccherosa o degna di un ambientalista sfegatato, considera la dichiarazione rilasciata nel febbraio del 2018 da Laurence D. Fink, fondatore e CEO di BlackRock, impresa di investimento da 6 trilioni di dollari.

In una lettera aperta — descritta dal New York Times come una «tempesta di fuoco» e «uno spartiacque a Wall Street» — Fink avvertiva i leader delle maggiori aziende mondiali che in futuro BlackRock avrebbe investito esclusivamente in imprese che prendessero sul serio le proprie responsabilità sociali.

«Per prosperare nel tempo, ogni brand deve non solo produrre risultati finanziari, ma anche mostrare quali contributi positivi offre alla società». Le persone vi prestano attenzione.

È un dato di fatto: la generosità aumenta la felicità

Stando a fonti autorevoli, sarebbe stato Gesù Cristo a coniare l’adagio «C’è più felicità nel dare che nel ricevere». Duemila anni dopo, gli scienziati dell’Università di Zurigo hanno dimostrato che aveva ragione.

Hanno infatti pubblicato sul numero di “Nature Communications” del luglio 2017 uno studio neurologico dal titolo La connessione neurale tra generosità e felicità.

E la ricerca ha stabilito proprio questo: c’è una connessione tra le sinapsi della generosità e quelle della felicità, a riprova che l’altruismo modifica l’attività del cervello umano, e che le conseguenti sensazioni di felicità provocano ulteriore motivazione a essere più generosi.

L’esperimento generosità

In questo esperimento, a cinquanta adulti era stato chiesto di completare un questionario sul loro umore in quel momento. Poi a ognuno erano stati consegnati 25 franchi svizzeri alla settimana per un mese. A una metà dei partecipanti era stato chiesto di spendere quel denaro per se stessi, mentre all’altra metà di spenderlo ogni settimana per qualcuno a propria scelta.

I volontari erano poi stati sottoposti a una risonanza magnetica mentre osservavano su un video scenari ipotetici sullo spendere del denaro proprio a favore di altri. Le loro reazioni cerebrali erano state registrate per tracciare come venivano valutati i benefici di aver speso dei soldi per altri piuttosto che per se stessi.

Lo studio ha evidenziato che i partecipanti al gruppo sperimentale — quelli che avevano ricevuto l’input di spendere il loro denaro per altri — attivavano reazioni volte a prendere decisioni più generose, durante il test sotto la risonanza magnetica.

Non solo: queste persone hanno mostrato una più forte crescita del senso di felicità rispetto al gruppo di controllo. Sembrava proprio che le zone del cervello associate all’altruismo e alla riconoscenza avessero stabilito una connessione.

Oltre l’esperimento

«Anche in un ambiente di laboratorio strettamente controllato, che comporta il dover prendere decisioni sotto lo scanner della RM, la dedizione agli altri produce generosità e un aumento di felicità», hanno commentato gli autori dello studio. Impegnandoti a essere generoso nel prossimo futuro, aumenti la probabilità di esserlo veramente e di riceverne un impulso di felicità. […]

Alla fine del 2016 Godiva, brand di cioccolateria di lusso, lanciò durante il periodo festivo uno speciale cofanetto regalo per incoraggiare la generosità. Visto da fuori sembrava una normale scatola di cioccolatini. Una volta aperto, tuttavia, si rivelava una sorprendente confezione a scatole cinesi. Ogni scatola conteneva infatti due scatole, una con la scritta «To Keep», l’altra con la scritta «To Give», e questo accadeva per tutte le scatole fino alla più piccola, che aveva al suo interno un paio di cioccolatini. […]

La confezione strenna era stata progettata da Godiva per stimolare i consumatori a compiere un atto di generosità verso qualcun altro, gustandosi allo stesso tempo l’altra metà del prodotto. Come la

ricercatrice canadese Elizabeth Dunn, esperta di psicologia della felicità, ha dimostrato con una serie di esperimenti, la generosità e le spese in favore degli altri producono concreti effetti positivi sulla salute.

I partecipanti, infatti, si sentivano psicologicamente più felici quando veniva detto loro di acquistare un dono per qualcun altro, piuttosto che di acquistare qualcosa per sé.

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Una buona tecnologia non giustifica una cattiva idea

Non abbiamo di certo alcun problema nei confronti dell’innovazione tecnologica. Tuttavia, l’innovazione dev’essere orientata verso l’esperienza umana, se non vuole andare incontro al rigetto, o addirittura al ridicolo. 

Questo probabilmente spiega perché i Google Glass si rivelarono un petardo bagnato, passando dal lancio al ritiro nel giro di due anni. Gli occhiali futuristici, che ospitavano un monitor in miniatura, una telecamera, un microfono, un accelerometro, un comando vocale, antenne wi-fi e un sacco di altre diavolerie, avevano indubbiamente un loro perché. 

Avrebbero potuto, dopotutto, «aumentare» la vita umana collocando l’equivalente di un minuscolo computer con accesso al World Wide Web direttamente sopra il bulbo oculare. Tuttavia, ciò di cui i loro inventori non tennero conto fu l’impatto nel mondo reale. 

L’impatto del mondo reale 

Le persone normali, perlopiù, percepirono quei primi utenti, quei fanatici della bolla tecnologica disposti a pagare 1.500 dollari per dei Google Glass, come degli alieni. La stessa presenza fisica di questi occhialoni da nerd diventò automaticamente un fattore di esclusione per coloro che non facevano parte del club. 

Questo fu il problema esiziale: quei device alla gente davano i brividi. Scrivendo sul Guardian, John Naughton, autore di From Gutenberg to Zuckerberg, ha dichiarato: 

Quegli occhiali facevano sentire a disagio chiunque ti stesse attorno. Cominciavano a dirti che certa tecnologia era intrusiva e lesiva della privacy. I buttafuori non ti consentivano l’ingresso nei locali, con indosso quelli che loro chiamavano ‘glassholes’, per sbeffeggiare gli ‘assholes’ che li indossavano. Il maître veniva a scusarsi, ma il tavolo che pensavi di aver prenotato all’improvviso non era più disponibile. E così via. 

L’editorialista e consulente tecnologico Tim Bajarin ha ripreso questo pensiero, raccontando la sua esperienza personale con i Google Glass in un articolo sul sito web di Techpinions poco dopo il ritiro del prodotto, nel 2015: 

Sono stati i peggiori 1.500 dollari mai spesi in vita mia. D’altra parte, come ricercatore, hanno costituito un ottimo strumento per aiutarmi a capire cosa non fare quando si crea un prodotto per il consumatore. 

Individuare il target corretto 

Il risultato finale è stato che Google perse milioni di dollari collocando l’innovazione su un piedistallo, a discapito dell’esperienza dell’utente. Ma, proprio come con i codici QR, una volta colto il lato esperienziale della cosa, l’innovazione ha iniziato ad acquistare un senso. 

ochi anni dopo i Google Glass sono tornati in auge, questa volta come uno strumento aziendale, più adatto ad ambienti funzionali come fabbriche e laboratori di industrial design. Lasciando le mani libere per lavorare questi occhiali sono in grado di offrire customer experience superiori. Per esempio consentono la ricerca di immagini e la traduzione linguistica in tempo reale. 

Per questo sono improvvisamente tornati (sebbene in casi di utilizzo di nicchia) ad assumere una loro rilevanza. 

Il potere del passaparola 

Oltre a essere a buon mercato, la comunicazione affidata all’autentico passaparola è una potentissima leva per spingere i brand. Nei cerchi concentrici delle nostre relazioni, più stretta è la connessione più vi è fiducia. 

Stando ai dati Nielsen, l’83% dei consumatori globali si fida delle raccomandazioni dei propri amici e familiari, contro il 66% di coloro che si fidano delle opinioni postate online in modo proattivo da perfetti sconosciuti. 

La società di consulenza BCG sostiene che i consigli diretti ricevuti tramite il passaparola di amici e parenti siano quattro o cinque volte più influenti rispetto ai cosiddetti «suggerimenti indiretti» provenienti dalla carta stampata o dalla Tv. 

Ecco un altro dato su cui riflettere: secondo un report su Social Media e Brand Advocacy stilato nel 2009 dall’agenzia Deloitte, i brand riescono a mantenere la fidelizzazione dei propri clienti acquisiti tramite la raccomandazione da parte di altri clienti con un tasso del 37% superiore. 

Quindi, non solo militarizzare la tua audience è un modo per stimolare la brand advocacy e generare nuovi clienti, ma quegli stessi clienti saranno molto più predisposti a rimanere fedeli rispetto ai clienti corteggiati attraverso altri canali. Il passaparola, dunque, non solo migliora l’acquisizione, ma riduce anche l’abbandono. 

Il WOM marketing 

In un articolo pubblicato nel 2009 su “Marketing Science”, gli autori David Godes e Dina Mayzlin parlano di passaparola (WOM, che sta per Word Of Mouth) «ingegnerizzato» o «creato dall’azienda»: 

Possiamo pensare al WOM creato dall’azienda come a un ibrido fra advertising tradizionale e passaparola nato spontaneamente fra i consumatori. 

Nel primo caso si tratta di un fenomeno attivato e implementato dall’azienda, mentre nel secondo caso si tratta di un fenomeno attivato e implementato dal cliente. Ciò che invece caratterizza il WOM marketing è che viene inizializzato in azienda e implementato dal cliente. 

L’articolo mostra come il cosiddetto «passaparola creato dall’azienda» possa generare vendite reali, concludendo che, per avere un impatto sul bilancio del brand, il passaparola non debba per forza essere completamente organico. Scrivono Godes e Mayzlin: 

«Da un punto di vista manageriale, questo risultato viene a confermare che non solo il WOM è importante, ma è addirittura qualcosa che può essere gestito sotto lo stretto controllo dell’azienda». 

L’advertising, in fin dei conti, non è altro che un cugino di primo grado del passaparola: il lavoro dei marketer è quello di portare le persone a parlare di un determinato prodotto o servizio e, successivamente, ad acquistarlo. 

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