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Il caso di Banca Marche e il paradigma della crisi della banca del territorio

L’intervento di Fulvio Coltorti su FIRSTonline del 18 agosto scorso sulla crisi della Banca delle Marche è, a mio avviso, apprezzabile per coraggio, lucidità di analisi e capacità propositiva. E quindi non stupiscono né la risonanza che ha avuto su altri giornali ne’ qualche disappunto per urtate suscettibilità istituzionali.

Esso pone senza infingimenti la questione delle cause del dissesto, rinvenendole nel ruolo inadeguato della proprietà, nei difetti di governo del Consiglio di amministrazione, nel peso sproporzionato esercitato per anni dalla figura del Direttore generale, nella assunzione di rischi oltre ragionevoli criteri di prudenza, nella inadeguatezza di controlli interni ed esterni alla banca.  

Le sue valutazioni assumono una valenza che supera il singolo, per quanto grave, episodio,  risultando  utili  per  costruire  quasi  un  paradigma  della  crisi  della  banca  del territorio, della quale non mancano di questi tempi altri e importanti esempi.  

Non so se questo obiettivo era implicitamente nelle intenzioni di Coltorti, ma a me e’ venuto spontaneo il riferimento alle situazioni nelle quali sono coinvolte molte banche situate in quelle regioni che un tempo furono identificate con la terza Italia, quella dall’economia aperta, flessibile, dinamica, luogo di trionfo della piccola e media impresa (ma anche  della bassa scolarizzazione), linfa innovativa della manifattura nazionale e delle banche campioni del territorio, pronte a sostenere, rischiare, selezionare. Vero mondo schumpeteriano di distruzione creatrice! Ma anche campo in cui la crisi economica ha avuto  un  peso  rilevante  sulle  vicende  dei  debitori,  poco  propensi,  da  sempre,  a consolidare i risultati dei tempi felici secondo un’ottica di più lungo termine. Questa e’ ad oggi la situazione che sappiamo, credit crunch compreso.

Ma Coltorti non indulge sui fattori esterni agli squilibri della banca, andando diritto al punto. Dopo tutto, sembra di capire, la crisi, come fa la marea quando si ritira, ha solo messo allo scoperto scogli, grandi e appuntiti, che stavano li’ da tempo e che alla fine ne hanno sfondato lo scafo. Insomma, sono d’accordo con Coltorti che la crisi economica come motivazione principale non può essere accettata di buon grado di fronte a comportamenti che hanno risposto ad altre logiche.

E’  bene  elencare  i  casi  più  importanti  del  momento:  1) Friuli:  Hipo  Alpeadria;  2) Veneto: Popolare Marostica, Credito Veneziano, BCC Monastier e del Sile, Banca Padovana; 3) Emilia Romagna: Cariferrara; 4) Toscana: meglio lasciar perdere; 5) Umbria: Popolare Spoleto; 6) Marche, già detto; 7) Abruzzo: Tercas/Pescara. Come si vede i caratteri sono tutti rappresentati: grandi, medi e piccoli, di tutte le categorie istituzionali, nord, centro e sud. Di altri casi il mercato parla esplicitamente, ritenendo che il riconoscimento pubblico della crisi sia solo questione di tempo.

E’ quindi abbastanza naturale che ci si interroghi sulle motivazioni e si sollevino dubbi sulla efficacia delle azioni seguite per prevenirle, intervenendo con giusta scelta di tempo. Distillando le situazioni de quo e con qualche esperienza maturata in un lungo passato professionale, mi sento di sintetizzare le cause/concause dei dissesti in cinque fattori, facilmente identificabili ex ante e anche facili da tenere a mente, in quanto iniziano tutti con la lettera C. Si chiamano Confusione di ruoli, Concentrazione dei rischi, Conflitti di interesse, Carenza di controlli, Costi. Mi sembra che, al di la’ di qualche differenza di denominazione, coincidano, anche per ordine di importanza,  con quelli che Coltorti ha individuato per spiegare la crisi della Banca delle Marche.

Nella Confusione dei ruoli inquadro il ruolo del demiurgo, padrone assoluto delle sorti della banca. Nonostante si faccia un gran predicare di collegialità, la correlazione tra approcci basati su un centro di potere unico e crisi bancaria e’ molto elevata.   Quante volte la proprietà  o  il  nucleo  di  riferimento di  questa sono  andati  alla  ricerca  di  un  deus  ex machina, che avrebbe fatto crescere la banca, beneficiato gli azionisti, soddisfatto i clienti, incentivato i dipendenti, esercitato una costruttiva dialettica con gli organismi di vigilanza, e, se fosse rimasto qualcosa, ricompensato meritatamente anche se stesso?

Ma, ai casi più gravi, tutti con appendici giudiziarie, si devono aggiungere quelle situazioni in cui Presidenti, alla ricerca di duratura affermazione personale, smaniano per occuparsi di tutto, dalla strategia alla ordinaria gestione, scegliendo ed estromettendo Direttori generali come nel calcio si fa con gli allenatori, Direttori Generali e AD che si sostituiscono ai Presidenti, facendone proprie scialbe propaggini o che pretendono di esercitare la funzione senza un sostituto in grado di surrogarli (perché non si dubiti mai su chi è l’uomo solo al comando), membri di Collegi sindacali che esercitano poteri estranei al proprio ruolo, magari in conflitto di interesse con la banca medesima. Sistematico nei casi più eclatanti il superamento di ogni delega di potere, senza nessuna riserva o censura da parte degli organi deleganti o di controllo.

Possibile che ci se ne accorga solo quando la frittata e’ fatta, magari dopo averli addirittura e per tanto tempo osannati?
La Concentrazione dei rischi e’ il modo di gestire, oltre ogni criterio di logica differenziazione, il portafoglio crediti, privilegiando in ogni caso settori a più elevata esposizione speculativa: l’investimento nel comparto immobiliare accomuna i nostri casi critici, con forzature sia nel proprio territorio sia in aree più lontane. Quella percentuale del
30 di crediti al settore delle costruzioni, che Coltorti cita per essere molto più alta della media e’ comune ad altre situazioni, e, in alcuni casi, anche superiore. Viene, talvolta, quasi da chiamarle banche contro il territorio, piuttosto che banche del territorio o per il territorio, guardando agli scempi che i loro finanziamenti hanno sovente prodotto. Ma quando si scopre la dimensione degli eccessi compiuti, come si fa a parlare di crisi? E i limiti normativi perché non hanno fatto tirare i freni in tempo? E l’industria manifatturiera vera e propria quale danno ha ricevuto da questo dirottamento di risorse?
È vero che le policy di vigilanza sono divenute più restrittive nella determinazione delle perdite su crediti e dei valori delle garanzie e che, come si dice da più parti, l’operazione che si sta conducendo e’ probabilmente troppo rapida per le attitudini del sistema. È parso che si volesse o dovesse fare il più presto possibile per colmare gap prodotti in anni di sottovalutazione del fenomeno e di bassi tassi di copertura dei crediti anomali, ma, concordo con lei che bisogna “dare tempo al tempo”, perché questo maggior rigore possa essere metabolizzato. Purtroppo e’ anche vero che il valore di mercato degli immobili a garanzia dei prestiti si è ridotto di oltre un terzo mettendo impietosamente in evidenza le imprudenze compiute. Quanti anni ci vorranno per ripristinare i giusti equilibri?

Il Conflitto di interessi che assume forme diverse, dal “debitore di riferimento” al formarsi di coaguli di potere che piegano le decisioni a criteri atecnici, e’ anch’esso rinvenibile nelle situazioni che ci occupano. Il punto e’ che lo sviluppo di queste malsane relazioni, pur svolgendosi in lunghi lassi temporali, attira raramente l’attenzione dovuta,  nonostante non manchino dati e informazioni per la corretta messa a fuoco del problema, via via che  la dimensione delle esposizioni verso i componenti gli organi aziendali e le loro diramazioni aumenta. Andranno valutati gli effetti delle nuove regole sulle parti correlate.

I Controlli carenti sono la gamba…rattrappita della Governance, nonostante che per quelli interni non si faccia che normare risk management, compliance, internal Audit, attività dei revisori contabili e dei sindaci, salvo se altri. Parafrasando altre affermazioni, verrebbe da dire che la normativa di vigilanza italiana e’ la più bella (la più severa o la più pervasiva?) del mondo, ma le situazioni di inadeguatezza all’interno della banca si replicano con frequenza.
Il sostanziale ritardo che Coltorti attribuisce, nel caso della Banca delle Marche, agli Organi di vigilanza della Banca d’Italia riguarda anche alcune delle banche citate, dato che, per gravi irregolarità, e’ intervenuta per prima la magistratura, costringendo al commissariamento degli organi.
 
In ogni caso, non si può non concordare che e’ sbagliato far intendere che e’ comunque “meglio tardi che mai” o che, ex post, si declinino a propria difesa tutte le iniziative esperite. Sta di fatto che la stalla e’ stata chiusa dopo che i buoi erano scappati.

Infine i Costi che, se non sono di per se’ causa di esplosione della crisi, sono fattore di aggravamento di ogni tentativo di rilancio aziendale. Il gigantismo delle reti distributive, il mancato rinnovamento dei processi operativi, la rinuncia all’efficientamento nel continuo sono anche essi riscontrabili nei dissesti, le consulenze e altri sprechi si accompagnano endemicamente ai più gravi fattori critici avanti richiamati. Il sistema ha continuato a crescere  nelle  sue  componenti  più  inefficienti  (gli  sportelli)  anche  dopo  che  la  crisi mondiale era in corso da tempo, procurandosi, ove dovuto, le necessarie autorizzazioni. Come progettare ora il downsizing dovrebbe essere materia di più attenta analisi e confronto e non frutto di situazioni pressanti e di decisioni estemporanee.

Quindi, tornando a noi, si può costruire davvero un modello del dissesto bancario, dati gli elementi ricorrenti e comuni che ne sono alla base, come riferimento per una più efficace prevenzione.

La parte costruens dovrebbe a questo punto prendere il posto che le spetta in ogni ragionamento critico, a condizione che siano chiare alcune pregiudiziali, per essere concretamente propositivi.

Bisogna mettere sul tavolo le vere questioni, senza indulgere in riconoscimenti di solidità patrimoniale delle banche, condizione necessaria ma non sufficiente; quando si cerca di riavviare i motori, ci vogliono nuovi capitali e chi è disposto a metterli, oltre a una macchina operativa rimessa in condizione di marciare, come anche Lei giustamente riconosce.
Ci si deve domandare se siamo di fonte a una situazione che richiede azioni di riconversione industriale di parte non trascurabile del sistema bancario, con consolidamento di porzioni di esso. Dobbiamo riconoscere che vanno cambiate alcune regole generali di governo delle banche ad ampia base sociale, ormai obsolete. Che l’avvicendamento nelle funzioni di responsabilità nella conduzione delle banche deve essere più rapido, che non vi è bisogno di deus ex machina, ma di collegialità delle decisioni, per le quali sono necessarie maggiori conoscenze e competenze e modalità più efficaci di censura di operati devianti. Si tratta di elementi strutturali e non gestionali.

Il rilancio del credito, anche con un più diretto coinvolgimento della base produttiva presente nel territorio della banca, deve rappresentare il naturale scopo di tutto questo sforzo.

A me sembrerebbe questo il momento adatto per non mollare la presa su alcuni punti essenziali dell’intervento di Coltorti e discutere di proposte, provando a coinvolgere un po’ tutte le parti in gioco, nella consapevolezza che l’autoreferenzialita’, da qualsiasi parte provenga, e’ di per se’ fattore che obnubila ogni tentativo di prevenire e correggere comportamenti che allontanano da sane pratiche gestionali.

A meno che, fatti i debiti confronti con altri Paesi e giudicatili tutti a nostro vantaggio, celebrati gli interventi di aggiustamento già messi rapidamente in azione, riconosciuto che ogni caso ha la propria individuale spiegazione, considerati i tenui segnali di miglioramento della congiuntura di cui si fa gran parlare, non si prenda atto che, dopo tutto, per le banche del territorio non esistano problemi seri o che, se esistono, riguardino solo gli altri.

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