Che uno dei principali limiti strutturali alla crescita della nostra economia sia il ristagno della produttività è ben noto, così come ben noto è che sono molteplici i fattori all’origine di questo ristagno. Fra tutte le possibili leve a disposizione per contrastare tale tendenza, il capitale umano svolge un ruolo preminente: con termine tratto dalla letteratura economica, si definisce capitale umano la dotazione di lavoratori e le loro competenze, in analogia con il capitale fisico (le macchine, le tecnologie, le infrastrutture materiali). E’ sui propri lavoratori, infatti, efficientemente combinati con la propria dotazione di capitale fisico, che si fonda la ricchezza economica di un paese.
In questo contesto, è noto che l’Italia presenta innanzitutto un limite in termini quantitativi poiché il crollo della natalità iniziato negli anni 80 ha fortemente limitato la crescita della popolazione, a partire da quella in età lavorativa. Dal 1993 essa aveva infatti cominciato a contrarsi e solo l’afflusso di immigrati ha consentito di arrestare e invertire questo trend dagli anni 2000 (Fig. 1). Il flusso migratorio non ha però impedito alla popolazione attiva di invecchiare (Fig. 2): se nel 1985 oltre la metà della popolazione (54.5%) aveva meno di 40 anni (e gli under 30 erano il 34.3%), oggi questa proporzione è radicalmente cambiata e gli under 40 e under 30 sono rispettivamente il 43.7% e 23.6%. L’ageing sfida così non solo i sistemi pensionistici ma anche il mercato del lavoro, poiché cambia le caratteristiche dei lavoratori, la loro propensione al rischio, il loro mix di competenze, attitudini, ecc. Valutarne gli effetti sulla produttività è difficile, perché un insieme ampio di variabili entra in gioco. Tra queste una delle più importanti è la qualità dei lavoratori stessi: per contrastare la riduzione del numero di lavoratori e il loro invecchiamento è fondamentale aumentarne le competenze.
Ma come misurare le competenze? Il primo passo, forse banale ma comunque un buon punto di partenza, è misurare il livello di scolarità. Ebbene, se confrontata con quella di altri paesi europei quali Francia e Germania, la scolarità media della popolazione italiana rimane largamente inferiore, nonostante il forte recupero avvenuto nel dopoguerra e con l’innalzamento dell’obbligo scolastico alla scuola media inferiore. E’ un problema che ci portiamo dietro dal passato, retaggio dei tassi di scolarità molto bassi degli anziani, ma non solo. Infatti, esaminando il livello di scolarità delle fasce più giovani della popolazione (Fig. 3), emerge che ancora oggi il 39% della popolazione giovanile italiana ha completato solo la scuola dell’obbligo e la percentuale di laureati rimane minoritaria (15%) e largamente inferiore a quelle di Germania (al 21%) e di Francia e Spagna (al 34%).
Certo non è solo questione di titolo di studio e di anni trascorsi a scuola, ma anche, e forse soprattutto, di competenze acquisite. In questo campo, come ben noto, il nostro paese non ha una tradizione di valutazione comparabile a quella di tanti paesi avanzati. Tuttavia, facendo riferimento ai lavori della Fondazione Agnelli, che da anni si occupa di studiare la scuola italiana, emerge che il divario rimane elevato anche in termini di competenze: gli studenti italiani sono (fra i paesi OCSE) fra gli ultimi per competenze matematico-scientifiche, al 21° posto nella capacità di lettura a 15 anni. Una carenza che non viene colmata successivamente: quasi un quarto dei giovani adulti italiani (25-34enni) ancora non raggiunge i livelli minimi di capacità di lettura e comprensione di testi e, nel complesso, il 60% si attesta su livelli medio-bassi. Va detto che anche in questo campo si rilevano ampi divari sia in termini territoriali (gli studenti del Nord raggiungono livelli di competenza superiori a quelli del Mezzogiorno) sia per tipologia di scuola: se nella primaria, la scuola italiana è fra le prime in Europa, alle medie gli apprendimenti degli studenti italiani precipitano nelle graduatorie internazionali. Successivamente, i risultati dipendono dal corso di studi: nei licei si assiste a una ripresa delle competenze anche nel confronto internazionale, mentre nell’istruzione professionale il ritardo si accentua.
Un ritardo strutturale sul quale la crisi può avere agito in direzioni opposte: per un verso vi potrebbe essere stato un effetto positivo derivante dall’incentivo per le imprese a investire di più in training e organizzazione e per gli individui a rimanere più tempo nel sistema scolastico e formativo. Per altro verso, durante la recessione si riduce la formazione “on the job” (il learning by doing) e le ridotte disponibilità economiche delle famiglie possono limitare la formazione universitaria dei giovani, costretti a entrare nel mercato del lavoro per compensare le perdite di reddito della famiglia di origine. Non si dispone di misure per tali fenomeni, tuttavia osserviamo che tra il 2007 e il 2013 è calata di 6 punti la percentuale dei 19enni iscritti all’università, certo non un buon segno.
Complessivamente, dunque, un quadro non positivo e non all’altezza né della necessità di far fronte al restringimento dell’offerta di lavoro per motivi demografici, né della crescente domanda di competenze che proviene dalle società moderne, a partire dalle conoscenze di base per arrivare a quelle sulle tecnologie avanzate. Un quadro che conferma l’ancora inadeguato investimento, in quantità e in qualità, della società italiana – istituzioni famiglie e imprese – nell’istruzione delle sue giovani generazioni così come nella formazione lungo tutto l’arco della vita lavorativa. In questo contesto di sostanziale disinteresse, si può forse comprendere perché non vi sia traccia di questi temi nel dibattito che sta accompagnando la legge di riforma della scuola. Assenza che si comprende ma che certo non si può giustificare.
Ma vogliamo anche cogliere il lato positivo di questa situazione: contrariamente alle economie più avanzate, da quelle del Nord Europa agli Stati Uniti, dove i livelli di scolarità sono oramai molto alti, nel nostro Paese vi è ampio spazio perché il livello di istruzione e il bagaglio di conoscenze e professionalità della popolazione possano aumentare e contribuire quindi a innalzare la produttività media della nostra economia e, con essa, il suo tasso di sviluppo potenziale.