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Il calcio italiano parte da -3: debiti, stadi e vivai. E’ ora di imparare dalla Francia e dall’Inghilterra

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Il primo applauso, in attesa del fischio di inizio del campionato, spetta ai ragazzi di Roca, frazione di Riviera di Melendugno, provincia di Lecce, che, di fronte al divieto di giocare a calcio nella piazza del paese, hanno inalberato questo striscione: “Criticate tanto la nostra generazione, ma ci avete tolto il pallone”. Un’accusa sacrosanta in un Bel Paese che si svuota di oratori, la vera scuola calcio che ci ha regalato Roby Baggio e Alex Del Piero, senza aver trovato alternative pubbliche o private.

Eppure, per ritrovare la voglia di seguire questo campionato a singhiozzo, spaccato in due dai Mondiali in Qatar, assediato dai debiti e impoverito dall’assenza dei campioni che scelgono platee più ricche, si deve ripartire dall’entusiasmo dei ragazzi che preferiscono dare due calci al pallone piuttosto che compulsare uno smartphone. E magari dare uno sguardo agli altri.

Il calcio francese e la fucina di campioni nati nelle banlieue

Alla Francia, ad esempio, oggi la miniera più brillante al mondo per i talenti del football. Come ci racconta su Le Monde Simon Kuper, grande firma del giornalismo inglese in trasferta oltre Manica, che così spiega i successi dei Bleus: “È sabato mattina,  poco dopo l’alba – racconta- prendo l’auto e mi avventuro nella banlieue lasciandomi alle spalle Parigi. Un po’ come mi capitava da bambino a Johannesburg quando uscivo dalla casa dei nonni per inoltrarmi in Soweto. Arrivo a Villejuif. Tra casermoni e fast food sorge un piccolo stadio intitolato a Karl Marx. Lì per tutta la giornata si susseguono le partite sotto lo sguardo degli istruttori federali”. Il risultato non conta: “È proibito fare classifiche – spiega un tecnico – l’importante è giocare”.

Pochi  chilometri più in là, a Bondy, è sbocciato il talento di Kylian Mbappé, cresciuto sotto la guida dei genitori ma anche dei tanti istruttori federali stipendiati dallo Stato per sostenere lo sport nelle zone disagiate. “Qui la gente vive per il calcio – ha detto la stella del Paris Saint Germain – Ci sono campi di calcio dappertutto nei pressi di Parigi. Da bambino la mia finestra dava sul campo”. 

Non è stato e non è un rapporto facile quello tra la Francia e i bleus. Paul Pogba ha detto che certe volte gli sembra di giocare in trasferta allo Stade de France. Fino al trionfo nei mondiali del 1998 il calcio è stato trattato come sport minori, meno nobile del ciclismo o dello stesso rugby. A ribaltare i rapporti di forza fu l’effetto Zidane, il gigante della Kabila diventato il simbolo delle periferie marsigliesi. Altri tempi. Oggi la metà dei giocatori che hanno alzato la Coppa del Mondo 2018 arriva dalle periferie che circondano Parigi. Ma il vivaio ha anche sfornato i fuoriclasse dell’Algeria, Mahrez e Brahimi, oltre a diversi titolari di Camerun, Marocco e, soprattutto,dei leoni del Senegal. Un tesoro, certo, che non gode in patria del tifo che merita.

II successo inarrivabile della Premier League

L’esatto opposto di quel che capita oltre Manica: la Nazionale non festeggia da 56 anni un titolo purchessia ma, come ha scritto il Guardian, “la Premier League rappresenta un successo commerciale inarrivabile. Nei prossimi tre anni i diritti tv supereranno i 10 miliardi di sterline, un record mondiale per una lega sportiva. Non esiste sulla piazza una concorrenza adeguata dopo l’addio alla Liga spagnola di Messi e Ronaldo. E il distacco sale di stagione in stagione: nessuno può contare su un patrimonio di competenze professionali, nuovi talenti, potenzialità economiche e risonanza mediatica. Sembra un primato inattaccabile, che poggia sul patrimonio rappresentato dal pubblico che, scrive il Financial Times “da sempre si sente protagonista, non solo spettatore”.

È l’effetto, sostengono gli studiosi, del ruolo di formidabile collante sociale svolto dal soccer fin dalle origini. A Manchester, ad esempio i calciatori della Newton Heath, diventato lo United nel 1902, sono i lavoratori delle Ferrovie, il nucleo duro di una città che all’epoca contava 84 mila abitanti, e delle officine di Friedrich Engels, il braccio destro di Karl Marx. È il calcio il collante sociale di una città che, in pochi decenni, sale a 1,25 milioni di abitanti. Non solo il rosso United, ma anche i concorrenti della White Cross League, da cui nascerà il City, efficace antidoto contro la masturbazione delle classi popolari, si legge nei documenti dell’epoca.

Il tifoso, si sa, non conosce limiti. Quando i giornali, dopo l’11 settembre, rivelano la passione di Osama Bin Laden per l’Arsenal, i tifosi dei gunners si sgolano cantando “Osama oh oh oh. Si nasconde dentro Kabul, ma adora l’Arsenal. Vai Osama oh oh “,

È su questa base che, giusto trent’anni fa, Rupert Murdoch avviò la grande rivoluzione. Assieme ad un pool di cinque Big club del calcio, il tycoon diede il via alla Premier Legue staccando un assegno (300 miliona di sterline) ritenuto all’epoca scandaloso. Nel contratto era previsto un contributo di solidarietà per gli altri club ed un ruolo di garanzia per la federazione.  Il 15 agosto 1992, dopo un primo rodaggio, il grande show divenne un formidabile spettacolo globale: si cominciò con lo Sports Saturday sabato 15, per poi passare il giorno dopo al Super Sunday. Un tris destinato a far epoca. Oggi sono 643 milioni le case collegate in 212 sistemi tv per un potenziale di 4,7 miliardi di utenti.

Anche qui torna utile la testimonianza di Kuper. “Nel 1986 – ricorda – andai a vedere una partita dell’Arsenal. Il biglietto costava una cifra ridicola, ma il posto allo stadio era terribile, Pigiato tra la folla cercavo di seguire il gioco che, perla verità, era poca cosa: tanti cross, molta noia”. Questo prima dei quattrini di Murdoch ma anche dell’impegno della signora Thatcher per neutralizzare gli hooligans e spingere le società (all’epoca contrarie) ad un fonte investimento negli stadi.

La Serie A tra debiti in crescita e talenti introvabili

Chiudiamo il minitour facendo ritorno alla Serie A, alla vigilia di un’annata anomala, intervallata dall’avvilente spettacolo di un Mondiale senza gli azzurri. Il calcio italiano riparte da una situazione debitoria critica: “Abbiamo attraversato un momento di grande criticità sotto il profilo dell’indebitamento – ha detto il residente Gravina –  negli ultimi 12 anni abbiamo accumulato 5,4 miliardi di euro di rosso aggregato, vale a dire un milione di euro al giorno e questo la dice lunga. Abbiamo in pratica raddoppiato il debito e oggi il 79% delle nostre società ha chiuso in perdita”.

Ma non è questo , probabilmente, l’handicap peggiore. Il calcio italiano è in potenza un affare, come dimostra la calata dei finanzieri Usa convinti di poter ripetere a basso prezzo gli affari della premier League. E. nonostante i flop, resta lo sport più seguito: il 55 per cento degli italiani (meno del 64 per cento del 2020, però) lo giudica lo spettacolo più interessante.

A differenza di quanto avviene in Francia, però, il bacino dei praticanti (poco più un milione) non alimenta i campionati. Prendiamo la situazione a dieci anni. Uno studio sui 2.387 giovani tra i 15 e i 21 anni utilizzati dal 2011/12 rivela che solo 101 giocano ancora in serie A, il 44% è finito tra i dilettanti, il 30 si è svincolato. Nel 2020/21 gli under 21 italiani sono stati l’1,5% dei calciatori impiegati, contro il 59,5% di stranieri. Il confronto con la Francia è improponibile, così come con quanto si fa in Germania, Belgio ed Olanda.

E gli stadi. Dal 2007, tra tante chiacchiere, ne sono stati costruiti solo cinque, da quello della Juventus all’Udinese, Albino Leffe, Frosinone e Sud Tirol. In Turchia ed in Polonia ne sono stati realizzati 19, in Germania 17. Numeri impietosi, insomma: non resta che affidarsi ai ragazzi di Melegnano.

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