Il frutto migliore che Governo e Bce si attendono dalla riforma delle banche popolari è la fusione tra il Banco Popolare e la Popolare di Milano. Su questa riforma, che rischia di dare il colpo definitivo alle banche di territorio, ovvero a quegli istituti che costituiscono il supporto principale al finanziamento delle piccole e medie imprese, è stato già detto molto (v. Banche popolari, credito cooperativo, economia reale e Costituzione; autori R.Cappellin, C.Casaletti, F.Coltorti, M.Vitale, Rubbettino 2016).
E’ pure risaputo che la solidità di una banca risiede essenzialmente sulla fiducia che riceve dalla sua clientela prima ancora che dal suo patrimonio. E la fiducia deriva dalla competenza del management e dalla sua impermeabilità – visti i tempi – alle “mainmise” dei politici. Inutile ricordare che nessuna banca è capace di fronteggiare un massiccio run dei suoi depositi per il semplice motivo che il risparmio che raccoglie viene impiegato e non lasciato inoperoso.
La fusione delle due banche sarà nelle intenzioni dei promotori (in primo luogo i manager delle due banche e i loro consulenti) un “merger of equals”. Per la verità, se torniamo ai dati di fine 2014 (fonte annuario R&S) il Banco Popolare veniva valutato in borsa 3.645 milioni di euro e la Banca Popolare di Milano 2.384 milioni per un totale di 6 miliardi: la banca milanese valeva il 65% del Banco veronese.
Ma quest’ultimo si distingue per una situazione molto problematica dal lato dei crediti deteriorati; sicché, nell’approvare la proposta di fusione, la Bce ha richiesto una sua ricapitalizzazione per un miliardo di euro. A cosa serviranno queste nuove risorse?
Se la base della richiesta fosse la necessità di fare pulizia nel bilancio, allora si tratterebbe di un apporto a copertura perdite presunte, da conteggiare prima della fusione; potremmo invece, come da alcuni ritenuto, essere di fronte ad un semplice rafforzamento patrimoniale per motivi prudenziali, rafforzamento di cui non ha bisogno la banca milanese, avendo anche realizzato un aumento di capitale nel 2014.
La quale, detto per inciso, è in questo momento la più bella del reame perché è l’unica banca o quasi che in Italia potrebbe permettersi di azzerare tutti i crediti deteriorati mantenendo un patrimonio positivo. In queste condizioni un mercato “perfetto” la vedrebbe predatrice invece che preda prelibata.
Questa situazione non è sfuggita al “mercato”. Da fine 2014 ad oggi il valore di borsa della Popolare di Milano è aumentato del 7% (da 2.384 milioni a 2.543 milioni) mentre il Banco veronese ha perduto il 47% (da 3.645 milioni a 1.934 milioni). Sulla base dei valori attuali, il “Bancone” (la banca che nascerebbe dalla fusione) varrebbe 4.477 milioni di euro, ai quali saranno da aggiungere 1.000 milioni corrispondenti alla ricapitalizzazione chiesta dalla Bce (da realizzare) e 2.543 milioni corrispondenti al valore del capitale apportato dalla popolare milanese.
Singolare che da quando è stato pubblicato il memorandum of understanding sulla fusione, il 24 marzo scorso, il valore del “bancone” abbia già perduto per strada quei mille milioni dell’aumento di capitale.
La Borsa ha evidentemente dato la sua interpretazione, svalutando il valore di entrambe le banche; ma molto di più quello del banco veronese. Dando per fatta la fusione e la trasformazione in società per azioni, i rapporti di forza sarebbero i seguenti: 46% del valore agli ex soci BPM, 36% agli ex soci Banco Popolare e 18% a coloro che sottoscriveranno l’aumento di capitale di quest’ultimo per complessivi 1.000 milioni.
Se il collocamento curato da Mediobanca comporterà l’ingresso di una cerchia ristretta di investitori saranno verosimilmente questi ultimi a menar le danze. Entra dunque un problema di trasparenza sulla governance: come saranno scelti questi futuri azionisti?