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Il 9 agosto 2007 il segnale dei subprime: oggi la crisi compie sette anni e diventa insostenibile

Sette anni fa, il 9 agosto del 2007, è successo qualcosa di imprevisto ma non di imprevedibile. A ben vedere, lo scoppio della crisi, inizialmente detta “subprime”, fu un fulmine a ciel sereno solo per chi non voleva vedere che ci eravamo contornati di false spiegazioni. Dalla storiella che le formiche cinesi risparmiavano troppo e “imponevano” agli americani di fare le cicale, a quella che eravamo dentro una nuova epoca dell’oro con inflazione permanentemente moderata e senza disoccupati, a quell’altra che, per definizione, qualsiasi innovazione finanziaria produceva benessere per tutti. La realtà era diversa. Gli Usa stavano accumulando pericolosi squilibri nei conti con l’estero (e non solo con la Cina). 

L’inflazione era moderata solo per i benefici effetti di ribasso dei prezzi dovuti agli aumenti di produttività e alla globalizzazione produttiva. L’innovazione finanziaria era solo in parte buona (ad esempio quella che ci ha migliorato la vita finanziando l’information technology) ma in gran parte serviva a creare ricchezze fittizie, che generavano redistribuzioni reali a vantaggio dei finanzieri stessi e dei ceti più abbienti e impoverimento per la generalità dei cittadini. Ciò, accompagnandosi a politiche monetarie troppo lassiste, implicava anche l’accumulo di eccessivo indebitamento privato che, con la crisi, si è in buona misura tradotto in accresciuto debito pubblico.

La risposta alla crisi è stata assai diversa tra gli Usa e l’Europa. Forti di un apparato istituzionale completo e rodato nonché dell’innato pragmatismo, gli americani hanno messo in campo massicci interventi espansivi monetari e fiscali. Di qua dall’Atlantico, debole per l’assetto istituzionale zoppo e appannata dall’ideologia liberista che nel frattempo non era più tanto di moda in America, l’Eurozona ha tardato a sferrare l’espansione monetaria e si è avviluppata nell’ipocrisia dell’austerità fiscale. Così, ha fatto un terribile euro-autogol, come lo stillicidio di riprese troppo fragili – o, addirittura, di depressione economica come in Italia – ci raccontano da anni.

Ma sarebbe sbagliato dare troppo peso alle differenze tra Usa ed Eurozona (in qualche modo Bruxelles e Berlino, dopo Francoforte, paiono sulla via del rinsavimento). Infatti, quel che resta è comunque uno scenario di macerie. La ripresa economica è troppo lenta anche in America, non solo in Europa. L’Fmi ha documentato che, nel giro di quattro anni dal loro scoppio, le crisi finanziarie dei paesi ricchi determinano una perdita tra il 10 e il 20% dei posti di lavoro. Se ci ricordiamo che l’ondata europea di crisi finanziaria è scoppiata nel 2011-12, ci si potrebbero aspettare cali di occupati fino al 2016. Insomma, le crisi finanziarie causano crolli e intorpidimenti occupazionali ben più gravi e duraturi rispetto alle recessioni cicliche “normali”.

È sostenibile questo? Probabilmente no. Si rischia di mettere a repentaglio la stabilità sociale. Specie in Europa, ma anche negli Usa, è necessario pensare a investimenti infrastrutturali con elevato potenziale di riattivazione dell’economia domestica. Credere che i soli investimenti privati siano in grado di riaccendere il motore della crescita è illusorio in un contesto in cui rischi e incertezze di natura macroeconomica e di sistema si sono fatti troppo grandi per essere sopportati dalle singole imprese.Per di più, lo scenario esterno si fa di giorno in giorno più complicato per l’Europa. Anche senza considerare i possibili effetti devastanti della nuova epidemia, il nord Africa e il Medio Oriente sono già in fiamme. 

E la crisi ucraina sta portando a un irrigidimento dei rapporti euro-russi che potrebbe avere conseguenze economiche assai negative. Con un ombrello protettivo americano sempre più sfilacciato e selettivo, possono realisticamente gli europei fare a meno di organizzare una politica di difesa e una politica estera comune degne di questo nome? Come ci insegna l’esperienza degli anni Trenta, l’uscita dal capitalismo finanziario e il ritorno a quello produttivo (che crea valori “veri”) è difficile e densa di incognite. Ma, comunque, l’uscita è necessaria. E se non la si governa si finisce soltanto per esserne succubi e per accrescere la probabilità di conflitti che, come accadde nel secolo scorso, possono anche sfuggir di mano. Con buona pace del principe di Salina, nel settimo anno della crisi l’unica cosa certa è che più nulla sarà come prima.

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