“La sentenza non scalfisce il contenuto essenziale della riforma del 2015”. Questa l’opinione di Pietro Ichino, giuslavorista e professore di diritto del lavoro all’Università di Milano, ex senatore Pd, secondo cui la decisione della Consulta “avrà probabilmente un impatto limitato”.
Il 26 settembre la Corte Costituzionale ha stabilito che determinare l’ammontare dell’indennizzo che spetta al lavoratore ingiustificatamente licenziato solo sulla base dell’anzianità di servizio è illegittimo. Una sentenza che, come previsto, ha scatenato numerose polemiche portando il vicepremier di Maio a parlare di “smentellamento del Jobs act”.
Professore, ci spiega quello che è accaduto ieri e quali sono gli effetti della pronuncia della Consulta?
“La Corte Costituzionale, con un solo voto di maggioranza e un membro giuslavorista (Giulio Prosperetti) in missione, ha deciso una modifica della disciplina dei licenziamenti introdotta con il decreto n. 23 del 2015.
La decisione riguarda in particolare l’indennizzo cui i lavoratori licenziati hanno diritto, nel caso di insufficienza del motivo addotto dall’imprenditore, non possa essere rigidamente predeterminato solo in base all’anzianità di servizio.”
E questo cosa implica?
“Che saranno i giudici a determinare l’indennizzo a loro discrezione, pur sempre entro il minimo e il massimo stabilito dalla legge, ma tenendo conto anche di altri parametri oltre a quello dell’anzianità. Ad oggi non si sa ancora quali, bisognerà leggere le motivazioni della sentenza e vedere se forniscono qualche indicazione.
Potremmo ipotizzare che i giudici terranno conto anche del carico di famiglia, delle condizioni del mercato del lavoro locale ed eventualmente del comportamento tenuto dalle parti nel corso del rapporto e durante il giudizio.
È probabile comunque che, anche dopo questa sentenza, il criterio di anzianità di servizio rimarrà il parametro principale per determinare l’indennizzo tra il minimo di sei mesi e un massimo di trentasei. Se così sarà, l’impatto pratico della sentenza sarà tutto sommato limitato.”
Quindi con questa pronuncia non si smantella il Jobs act, come ha sostenuto il vicepremier Di Maio?
“I giudici hanno respinto la censura mossa dal Tribunale di Roma alla parte della legge che stabilisce un minimo e un massimo dell’indennizzo dovuto. Questo significa che, nel momento in cui saranno chiamati a decidere, i giudici dovranno rispettare comunque questi limiti. Proprio per questo motivo, salvo sorprese contenute nella motivazione, si può dire che la sentenza non scalfisce il contenuto essenziale della riforma del 2015 che si basa dal punto di vista tecnico sul passaggio da un regime di job property, cui corrisponde la sanzione della reintegrazione, a un regime fondato su di una liability rule ,la sanzione indennitaria, predeterminata nel minimo e nel massimo.”
Cancellare l’indennizzo basato sull’anzianità e lasciare mano libera ai giudici di valutare caso per caso che effetti pratici avrà per i lavoratori e per le imprese?
“L’effetto della sentenza sarà un aumento dell’incertezza circa l’entità dell’indennizzo deciso dal giudice, con conseguente probabile aumento del contenzioso giudiziale.
Per quanto riguarda i lavoratori, la sentenza avvantaggia principalmente quelli con anzianità minore, per i quali la protezione contro il licenziamento può aumentare notevolmente di peso. D’antro canto però bisogna tenere in considerazione anche l’altro lato della medaglia. Questo “peso maggiore” potrebbe avere un effetto disincentivante sulle assunzioni a tempo indeterminato.
I lavoratori con anzianità di servizio elevata, che sono pochissimi, occorre dirlo, dato che la norma si applica ai rapporti di lavoro costituiti dal 7 marzo 2015, non avranno invece alcun vantaggio da questa sentenza dato che la loro indennità resterà predeterminata nella misura massima prevista dalla legge.”