Quando Trump nelle scorse settimane ha alzato i dazi su 34 miliardi di controvalore di prodotti cinesi, la Cina ha risposto alzando i dazi su alcuni prodotti americani molto mirati, tra cui la soia. I cinesi sono grandi consumatori di soia e non riescono a produrla tutta in casa. La differenza, fino al mese scorso, veniva in gran parte dagli Stati Uniti e, in particolare, da quel Midwest conservatore che sarà decisivo nel 2020 se Trump vorrà essere rieletto alla Casa Bianca.
Se Trump, dopo il probabile passaggio della camera bassa ai democratici in novembre, sarà stato nel frattempo oggetto di impeachment, a presentarsi alle presidenziali del 2020 come incumbent repubblicano ci sarà Mike Pence, che fino a due anni fa era stato l’apprezzato governatore dell’Indiana.
L’Indiana, a parte il suo angolino nordoccidentale che è la periferia povera e industriale di Chicago, è uno stato di agricoltori seri e devoti dove tutti sono ospitali e gentili tra loro e verso i forestieri. La vita tranquilla, l’atmosfera solida e prospera, l’origine tedesca degli abitanti, l’ordine, la pulizia e il bilancio pubblico in attivo farebbero pensare alla Baviera o alla Svizzera se non fosse che l’Indiana è perfettamente piatto. Ed essendo piatto e bene irrigato è assolutamente perfetto per coltivare grano e soia.
Purtroppo il grano, dal 2000 a oggi, ha continuato lentamente a scendere di prezzo, mentre la soia vale la metà di cinque anni fa. Gli agricoltori fanno sempre più fatica a onorare i debiti contratti con le banche per comprare semi, fertilizzanti e macchine. Negli ultimi tempi ci sono stati numerosi fallimenti e perfino suicidi.
In questo contesto è chiara la perfidia della scelta cinese di penalizzare la soia per infliggere il massimo danno non solo economico, ma anche e soprattutto politico, all’amministrazione Trump-Pence. E si capisce anche come l’amministrazione, che a differenza dei governi europei può dare, insieme al Congresso, tutti gli aiuti di stato che vuole, abbia immediatamente stanziato 12 miliardi per aiutare i produttori di soia del Midwest.
Ma in questo contesto si può anche apprezzare quanto sia stato astuto da parte europea presentarsi ieri alla Casa Bianca con la promessa di comprare molta soia americana (e molto gas) se Trump
sospenderà il 10 per cento di dazio aggiuntivo sulle auto tedesche. Presentandosi con questi ramoscelli d’ulivo Merkel, che ha rilevato dai falchi francesi della tecnocrazia di Bruxelles la conduzione politica del negoziato con gli Stati Uniti, fornisce a Trump la prova che l’Europa è pronta a discutere seriamente l’ipotesi di un taglio, non di un aumento, dei dazi sulle auto. Trump, dal canto suo, dopo avere sollevato questioni a non finire su tutto lo scacchiere internazionale, ha bisogno di portare a casa qualche successo o, quanto meno, di dimostrare che quando ha proposto in Quebec di abbassare tutte quante le barriere doganali, non stava producendosi in una semplice boutade.
A questo punto, prima di proseguire il discorso generale, concludiamo quello sulla soia. I cinesi, come abbiamo visto, non la compreranno più dagli Stati Uniti ma dal Sudamerica. Gli europei, dal canto loro, non la compreranno più dal Sudamerica ma dagli Stati Uniti. Alla fine ci saranno delle navi che dovranno cambiare rotta, ma nessuno pagherà dazi sulla soia, nessun consumatore vedrà salire il prezzo del suo tofu, il commercio internazionale di soia rimarrà invariato e nessun produttore verrà penalizzato. La perfetta quadratura del cerchio. I mercati hanno fatto bene a reagire con prudenza al buon esito dell’incontro tra Juncker e Trump. La doccia fredda seguita all’apparente disgelo tra Stati Uniti e Cina nei mesi scorsi è un ricordo ancora fresco e l’umoralità di Trump garantisce che ci sarà qualche incidente di percorso.
Ma anche tra Trump e Kim Jong Un c’è stato un brusco raffreddamento poco prima di Singapore, ma la presenza di una forte volontà politica di portare a casa un risultato alla fine ha prevalso.
La reazione misurata dei mercati non toglie però importanza all’incontro, che ci pare al contrario molto significativo per due aspetti. Il primo è che si può legittimamente lasciare aperta la porta alla speranza che tutte le questioni sollevate da Trump si risolvano alla fine in un fair trade che non lede il free trade e può perfino agevolarlo.
La seconda, meno incoraggiante, è che il conflitto si trasferirà sempre di più alla Cina, che nella testa di Trump (e di molti democratici americani) è il vero avversario strategico degli Stati Uniti.
La superpotenza imperiale americana non può permettersi di restare passiva di fronte a una Cina che sta comprandosi l’Asia, l’Africa, la Siberia e pezzi d’Europa e che ha l’ambizione di diventare leader nell’intelligenza artificiale, nello spazio, nella robotica e in tutti i settori industriali che sono la precondizione per diventare militarmente egemone su scala globale. Il conflitto con l’Europa e l’antipatia nei confronti del globalismo mercantilista della Merkel sono una questione assolutamente secondaria rispetto alla questione cinese. Trump può anche preferire in cuor suo un’Europa dei sovranisti, ma un’Europa dei sovranisti non gli cambierebbe la vita. Insomma, risolte le questioni di soldi, si può continuare a convivere con la Merkel a condizione che questa non faccia troppo fronte comune con la Cina.
Oggi l’America chiede all’Europa di schierarsi sull’Iran. Domani le chiederà di schierarsi sulla Cina. L’Europa cercherà di mantenere aperte le porte di Iran e Cina ma, alla fine, graviterà sempre verso gli Stati Uniti più che verso la Cina, soprattutto se il conflitto tra Cina e America, come è ben possibile, si aggraverà. Non ci sarà, quindi, l’alleanza dei liberoscambisti (Cina e Europa) contro la protezionista America anche perché, come stiamo vedendo in questi giorni, due esportatori per un importatore sono troppi e i due esportatori, alla fine, entreranno in conflitto tra loro.
La Cina, del resto, si sta preparandosi a un lungo conflitto con l’America. La svalutazione del renminbi di questi ultimi tre mesi, come ha notato Olivier Blanchard, è perfettamente calibrata per annullare a livello macro gli effetti negativi non solo della prima tranche di dazi americani (i 34 miliardi già in essere e i 16 imminenti) ma anche il pezzo da novanta dei 200 miliardi in preparazione per ottobre. I dazi del 25 per cento sulla prima tranche e quelli del 10 sulla seconda valgono 35 miliardi di dollari. E quanto vale la svalutazione del 7 per cento del renminbi spalmata sui 250 miliardi di esportazioni cinesi colpite dai dazi? Esattamente 35 miliardi di dollari. Come nel caso della soia, anche qui abbiamo la perfetta quadratura del cerchio. In
pratica, nei rapporti di forza tra esportatori cinesi e importatori americani non cambierà assolutamente nulla e nessun prezzo in dollari salirà.
E dunque? Possiamo ipotizzare vari scenari. L’America, non potendo comprare renminbi sul mercato (non ce ne sono abbastanza) dovrà rassegnarsi a una Cina che svaluta ogni volta che l’America alza i dazi e dovrà quindi spostare il conflitto su altri terreni, come le sanzioni.
La Cina, dal canto suo, non potrà ricorrere facilmente all’atomica della vendita dei titoli di stato americani che detiene nelle sue riserve. Il rischio sarebbe quello di una crisi finanziaria internazionale da cui la Cina stessa non trarrebbe nessun vantaggio.
Alla Cina rimanevano fino a tempi recenti due strade, l’espansione del mercato interno e l’espansione verso ovest attraverso le operazioni di vendor financing che stanno dietro la Nuova via della seta. La seconda strada si sta però chiudendo velocemente. Le bellissime metropolitane con l’aria condizionata e i capitreno che si inchinano ai passeggeri costruite dai cinesi a Addis Abeba o a Lahore non sono gratis e i paesi che hanno accolto gli investimenti infrastrutturali cinesi ora si ritrovano pieni di debiti e si devono rivolgere, come farà presto il Pakistan del neoeletto Imran Khan, al Fondo Monetario Internazionale.
Ecco allora che la Cina dovrà accelerare sulla sua riconversione ai consumi interni e aumenterà ulteriormente le spese a sfondo militare. Per chi investe, la tregua tra Stati Uniti ed Europa è una buona notizia per l’azionario americano e tedesco, ma accelera al margine la normalizzazione monetaria della Fed. A favorire la borsa tedesca, almeno nel breve, è anche la politica ultraespansiva che la Bce, come ha confermato Draghi, manterrà nei prossimi 12 mesi. In Asia saranno favoriti i titoli legati ai consumi interni cinesi e la borsa del Giappone, un paese al riparo dagli attacchi di Trump.