Una volta bastava che il sindacato minacciasse uno sciopero e il Governo tremava o cadeva. Oggi sullo sciopero il sindacato si spacca ma non cambia di una virgola il corso della politica economica e il governo tira dritto. Dopo lo sciopero di giovedì scorso di Cgil e Uil il rischio di irrilevanza politica e di profonde lacerazioni del movimento sindacale italiano è sotto gli occhi di tutti. Naturalmente il declino sindacale non è cominciato ieri ma forse mai come questa volta una parte del sindacato ha dato la dimostrazione di essere sconnesso dalla realtà del Paese e di non avere piena consapevolezza che l’Italia – con i miliardi del Next Generation Eu e con le riforme promesse dal governo Draghi – ha un’occasione storica e irripetibile davanti a sè e la possibilità di svoltare e di trasformare il vistoso rimbalzo del Pil del 2021 in una crescita duratura e molto più alta di un prefisso telefonico. Ma quali sono le origini dello spiazzamento della parte maggioritaria del sindacato che ne fanno “l’anello debole della democrazia italiana”? Secondo un osservatore esperto come Gianfranco Borghini, già parlamentare e responsabile Industria del Pci, sono principalmente tre: il corporativismo, il populismo e il ribellismo fine a se stesso. Ma, come avverte lo stesso Borghini in questa intervista a FIRSTonline, la deriva del sindacato o per lo meno di Cgil e Uil ha effetti deleteri anche sulla politica benchè la sinistra non paia accorgersene. Sentiamo come e perchè.
Il segretario della Cisl, Sbarra, ha definito “incomprensibile” lo sciopero generale promosso giovedì 16 dicembre da Cgil e Uil e in effetti è difficile da comprendere se si considera che è avvenuto contro un Governo che è un modello per tutta Europa per il suo modo di contrastare la pandemia, che pratica una politica economica espansiva, che ha riportato la crescita del Pil (+6,3%) ai livelli del miracolo economico degli anni ’50 e ’60 e che non ha mai smesso di dialogare con i sindacati: qualcuno ha sostenuto che l’ostinazione con cui Cgil e Uil hanno voluto lo sciopero generale è solo un modo per affermare la propria esistenza in una fase nella quale l’azione sindacale ha sfiorato e sfiora l’irrilevanza. Può essere la giusta chiave di lettura?
No, non credo. Se così fosse sarebbe davvero inescusabile. Temo invece che il gruppo dirigente della Cgil e della Uil (i due sindacati storicamente vicini alla sinistra) abbiano ceduto alle pulsioni corporative e populistiche che riaffiorano, con sempre maggiore frequenza, nel “popolo” di sinistra e che non trovano più un argine nei gruppi dirigenti del sindacato e dei partiti. Pensavamo che il corporativismo, il populismo e il ribellismo fossero un ricordo del passato e invece non è così. Non solo ispirano l’azione dei sindacati corporativi (come i Cobas e affini) ma oggi condizionano anche le scelte delle grandi organizzazioni confederali (con l’unica eccezione della Cisl) oltreché quelle del Movimento 5 Stelle. È un fatto da non sottovalutare.
A giudizio di molti osservatori, l’Italia ha davanti a sè un’occasione irripetibile di svolta trasformando il vistoso rimbalzo del Pil del 2021 in una fase duratura di crescita elevata, se saprà spendere bene le risorse del Next Generation Eu e se saprà fare le conseguenti riforme: purtroppo Cgil e Uil non sembrano rendersi conto dell’importanza di questa opportunità e, anzichè aiutare il Paese a coglierla, danno l’impressione di mettersi di traverso. Concorda con chi pensa che l’indifferenza e l’incomprensione del momento storico che l’Italia sta vivendo sia il punto cruciale dell’attuale vicenda sindacale e in parte anche di quella politica?
Sì, è così. Non c’è, nel sindacato e nei partiti della sinistra, sufficiente consapevolezza dei rischi che il populismo e il corporativismo comportano per la nostra democrazia. Il populismo, con il 32% dei voti dato ai Cinque Stelle, e il corporativismo sindacale che si radica sempre di più nella scuola e nei servizi, non sono un fantasma del passato (quello terribile del primo dopoguerra che generò il Fascismo). Sono, invece, il frutto della profondissima crisi del nostro sistema politico-istituzionale che dura ormai da più di vent’anni e alla quale nessuno sino ad ora ha saputo porre rimedio. Questa crisi ha già travolto i partiti della Prima Repubblica, dei quali sopravvivono soltanto le rovine (come i ruderi dell’Antica Roma) e oggi aggredisce il sindacato che diventa così “l’anello debole della catena della democrazia italiana”, quello che più facilmente può cedere alle lusinghe del populismo e del corporativismo. Per questa ragione la scelta di Landini e Bombardieri di proclamare uno sciopero generale nel pieno di una pandemia e nel momento del massimo sforzo unitario del paese per farvi fronte, avrebbe dovuto creare allarme nella sinistra italiana che invece si è dimostrata acquiescente se non addirittura solidale.
Nella passata fase della massima importanza sociale e politica del sindacato – cioè quella degli anni ’70 e ’80 quando, al contrario di oggi, bastava minacciare uno sciopero generale per far cadere un governo – la forza del movimento sindacale e in particolare della Cgil era quella di conciliare gli interessi dei lavoratori con gli interessi generali del Paese mentre ora, al di del merito delle questioni aperte sul fisco e sulle pensioni, l’impressione che desta la protesta di Cgil e Uil è che le loro rivendicazioni siano vissute come variabili indipendenti dal quadro generale del Paese, come succedeva in passato per il salario nella concezione della Cisl e che, come tali, siano inevitabilmente destinate a non trovare un terreno di conciliazione con la linea del Governo: è d’accordo?
Non è una impressione, è un dato di fatto. La Cgil di Landini ha modificato il proprio asse strategico e questo fatto, se non verrà corretto, è destinato ad avere conseguenze di grande rilievo nel paese. Per capirlo è necessario fare un passo indietro. Nel sindacato italiano hanno sempre convissuto due anime: quella socialista-riformista e quella corporativa-rivoluzionaria. A dividerle era, allora come ora, la questione della coerenza fra le rivendicazioni sindacali e l’interesse generale del paese: per i riformisti la coerenza tra queste due esigenze era la condizione stessa per l’affermazione dei diritti dei lavoratori mentre per i corporativi e i rivoluzionari no. Per i corporativi l’essenziale era che le loro rivendicazioni venissero accolte a prescindere dagli effetti che queste avrebbero avuto sull’economia nazionale, mentre, per i rivoluzionari, ciò che davvero contava è che la loro iniziativa sindacale contribuisse ad innescare un processo di cambiamento del sistema. Nel primo dopoguerra a prevalere furono le componenti corporative e rivoluzionarie: i primi portarono il sindacato alla sconfitta, mentre i secondi favorirono (non sempre inconsapevolmente) l’avvento del Fascismo. È stato soltanto nel secondo dopoguerra che la componente socialista-riformista (grazie anche alla Svolta di Salerno di Togliatti) prese saldamente nelle proprie mani la guida della Cgil dandogli, con Di Vittorio, una piattaforma (il Piano del Lavoro) che faceva del sindacato una delle forze motrici della rinascita economica, del riscatto delle forze lavoratrici e del radicamento della democrazia. Da quel momento le componenti corporative e rivoluzionarie, pur non scomparendo, persero di influenza. Da Di Vittorio a Novella, a Lama sino a Trentin, la Cgil, con la Uil e la Cisl, si sono collocate sul terreno della assunzione da parte del sindacato di una responsabilità nazionale. Così è stato con la Svolta dell’Eur di Lama negli anni ’70, e così è stato, dopo l’infausta parentesi del referendum sulla scala mobile, che Lama per altro non voleva, con gli accordi del ’92 con il governo Amato e del ’93 con il governo Ciampi. Questa linea, dell’unità sindacale e dell’assunzione di una responsabilità nazionale, ha pagato per i lavoratori e per il paese e ha consentito all’Italia di superare crisi economiche e sociali certamente non meno gravi di quella attuale. Un affievolimento di questa impostazione nella Cgil si è manifestato già con Sergio Cofferati (con la vicenda dell’articolo 18) ed è proseguito con la Camusso, un Segretario Generale inesistente. Ma è soltanto con l’ascesa di Landini che il cambiamento dell’asse strategico della Cgil è diventato evidente. Landini, del resto, non ha mai nascosto il suo orientamento pan-sindacalista. Per lui esistono soltanto il Sindacato, la Confindustria e il Governo. Sono questi i protagonisti del confronto ed è soltanto dalla dialettica tra questi soggetti che debbono scaturire le scelte di politica economica e sociale (ivi compreso il Fisco che è materia di esclusiva competenza parlamentare). Il Parlamento, i partiti e le altre istituzioni non rientrano in questo quadro. Nella migliore delle ipotesi, sono ancillari. Ma le riforme economiche, sociali e istituzionali di cui il paese ha un disperato bisogno per tornare a crescere reclamano la Politica. Presuppongono cioè che siano la Politica, il Parlamento e i Partiti a guidare, coinvolgendo, nell’attuazione delle riforme, anche i sindacati e non viceversa.
Veniamo agli aspetti politici del disorientamento sindacale: non le sembra che dalla fase della Cgil come cinghia di trasmissione del Pci si sia paradossalmente arrivati alla fase contraria di oggi, nella quale il massimalismo e il populismo della Cgil – che trova forse una delle sue peggiori espressioni nella scuola con una pratica sindacale non molto diversa da quella dei Cobas e del tutto indifferente alla qualità dell’insegnamento e alle attese degli studenti – ispirano anche l’azione politica attuale del Pd e di Leu che, non caso, corrono verso l’abbraccio con i Cinque Stelle e che erano pronti a tutto per difendere un Governo palesemente inadeguato come il Conte 2?
La visione pan-sindacalista è una visione parziale che non comprende la complessità della situazione e non aiuta a gestirla. Riformare il paese, incentivare l’innovazione, elevare la produttività sono sfide politiche nel senso più alto del termine. L’innovazione tecnologica è il driver dello sviluppo ed è anche l’unico strumento che abbiamo per gestire, senza creare tragedie sociali, la transizione energetica. L’aumento della produttività è la condizione perché il paese torni a creare lavoro e ricchezza sufficienti per tenere sotto controllo il debito. Ma questo nesso: riforme, produttività e sviluppo, sembra sfuggire completamente al sindacato. Le riforme e l’innovazione non creano soltanto il lavoro ma lo cambiano, ed è questa la dinamica che il sindacato di Landini e Bombardieri sembra non capire e che invece ha perfettamente capito Marco Bentivogli al quale la nomenclatura della Cisl ha purtroppo preferito, come Segretario, un modesto funzionario. Così come nel passato non si è voluto cogliere il nesso tra salario e inflazione oggi non si vuole cogliere quello tra innovazione tecnologica e cambiamenti del lavoro.
A proposito di Conte, dobbiamo considerare casuale il fatto che Cgil e Uil abbiano scioperato contro il Governo Draghi e non siano mai scesi in campo contro i Governi Conte o questa è la cartina di tornasole dello spaesamento populista di buona parte del movimento sindacale che non è certamente una bella notizia per il Paese?
No, non è casuale. Il governo Conte 1 ha introdotto il Reddito di cittadinanza e Quota 100. Due misure che al sindacato andavano bene. Il governo Conte 2 non ha avviato alcuna riforma che potesse in qualche modo creare problemi al sindacato. Per questo non c’è stato conflitto che invece oggi c’è per la semplice ragione che Draghi ha cominciato a cambiare delle cose, ed è questo che un sindacalismo conservatore teme di più.