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I tormenti di Pdl e Pd e il teatrino senza politica

I maggiori partiti italiani affrontano una nuova crisi, quella sulla propria identità: da un lato il Pdl che cerca di tornare a essere Forza Italia, ma rischia la scissione, in una battaglia che dovrebbe chiudersi con la riunione del Consiglio nazionale. Dall’altro il Pd, che affronta il Congresso e le Primarie, alla ricerca di un leaderismo che non funziona

I tormenti di Pdl e Pd e il teatrino senza politica

Diciamo la verità, nella cosiddetta seconda repubblica, o se si preferisce nel ventennio berlusconiano, i partiti non hanno mai goduto di ottima stampa. Sono stati un po’ da tutti considerati i veri protagonisti di quello che uno stantio luogo comune ha sempre definito come “il teatrino della politica”. E così mentre a destra Berlusconi provava quasi una sorta di allergia per la stessa parola “partito”, preferendo sempre parlare, sia per Forza Italia che per il Pdl, di “movimento da me fondato”, a sinistra nasceva il Pd che nella versione veltroniana (oggi ripresa da Matteo Renzi) avrebbe dovuto superare il partito pesante, fatto da iscritti congressi e procedure, per affidarsi alle mitizzate primarie, anche per scegliere il proprio leader, che avrebbe poi (nei fatti) scelto i gruppi dirigenti.
In questi giorni (tanto a destra che a sinistra) stiamo assistendo al fallimento di questo modello. Cominciamo dalla destra.

Il Pdl che prova a diventare Forza Italia (un remake al posto di un’innovazione), ma non ci riesce e rischia così una sempre più probabile scissione. Infuria la battaglia tra falchi e colombe, resa ancora più drammatica, dalla incombente decadenza del fondatore dal Senato, per essere affidato per ora ai servizi sociali, poi si vedrà. Ma dietro questa battaglia interna, che dovrebbe risolversi alla fine della prossima settimana, in una riunione del Consiglio nazionale (organismo quasi mai convocato che consta di circa ottocento membri) ci sono anni di partito ultra-presidenzialista, fatto sì di tante riunioni di un cosiddetto “ufficio di presidenza”, che però ha sempre funzionato più da consiglio della corona che da gruppo dirigente di un partito democratico. Il primo a denunciare questo stato di cose fu l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso (approdato in Forza Italia) che definì le convention berlusconiane come “il luogo del culturismo dell’adulazione”.

Erano altri tempi, Berlusconi poteva ancora permettersi di non gradire e punire quelle considerazioni che servirono soltanto a chiudere la porta della designazione a candidato alla Corte costituzionale al povero Mancuso. Eppure qualcuno ci aveva provato a dire a Berlusconi che alla fine un partito vero andava fatto, naturalmente, con tutte le cautele del caso. Ma il Cavaliere da quell’orecchio non ci ha mai voluto sentire. Anzi, quelli che ci hanno provato, come Fabrizio Cicchitto, sono sempre più finiti in un cono d’ombra di antipatia. Eppure, nonostante la rigida struttura presidenziale del movimento, questo, alla fine, non ha impedito che tra falchi e colombe, o se si preferisce tra lealisti e innovatori, volassero gli stracci. Vedremo l’epilogo al prossimo consiglio nazionale, sempre che si tenga e non salti, causa scissione anticipata.

Ma anche nel Pd, che pure resta un partito tuttora organizzato su base democratica, secondo quanto previsto dall’articolo 39 della Costituzione, il modello leaderistico non ha funzionato al meglio. Naturalmente le cose intorno al nuovo partito della sinistra non hanno funzionato come aveva previsto Veltroni: il nostro sistema politico non si è speditamente avviato verso il bipolarismo previsto, e il partito a vocazione maggioritaria, annunciato in occasione della sua fondazione, si è trovato sempre meno maggioritario. E questo avrebbe dovuto portare a praticare una solida politica di alleanze, come quelle realizzate nelle regioni e nei comuni, che consentono oggi al Pd di governare la maggior parte degli enti locali del Paese. Così non è stato. Bersani era favorito nelle scorse elezioni politiche, ma si è trovato a fare i conti con la (sottovalutata) forza del Movimento Cinque Stelle, con l’imprevisto crollo del centro (Monti e Casini) e con il più strano tripolarismo del mondo imperniato su un partito di centro-sinistra, e due populismi, uno di destra e un altro di idee difficilmente catalogabili, ma tendenti a destra e una base elettorale fatta invece di voti persi a sinistra dal Pd.

Ed è in questo quadro che si sta svolgendo il Congresso del Pd che vede Matteo Renzi favorito per la segreteria, grazie al fatto che il segretario sarà scelto invece che dagli iscritti, dal popolo delle primarie. Insomma da coloro che si recheranno (indipendentemente dal proprio orientamento politico) ai gazebo l’8 dicembre. Naturalmente dopo che le cronache hanno riferito in questi giorni di scontri nei circoli, di tesseramenti last minute a volte improbabili. Naturalmente consentiti da un assurdo regolamento che consentiva il voto anche a chi si iscriveva per la prima volta al partito nel giorno del voto. Per evitare che accada il caos, i dirigenti del Pd, e soprattutto i candidati alla segreteria dovranno esercitare tanto, ma tanto senso di responsabilità.

Questo il quadro della politica italiana e del ruolo dei partiti “affievoliti”. Già. Ma almeno ci si potrebbe chiedere se si è messo fine al tanto bistrattato teatrino della politica. La risposta, alla luce degli ultimi avvenimenti, è che la politica è quasi finita, ma il teatrino continua. A parte le battute sarebbe necessaria tanto a destra che a sinistra una seria riflessione se la democrazia può fare a meno dei partiti o anche soltanto se si può consentire un ulteriore riduzione del loro ruolo. A mio avviso la risposta non può che essere negativa. In nessun paese democratico è accaduto questo. I partiti italiani nella prima e nella seconda repubblica hanno compiuto tanti errori e tante incomprensibili e inutili invadenze. Ma potrebbero farne oggi, alla conclusione di un orribile ventennio, uno definitivo: considerarsi inutili.

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