Prima o poi bisognerà rassegnarsi: questo è ormai un calcio da sceicchi. Il giocattolo s’è rotto e la legge la fanno i petrodollari e, solo in qualche caso, i rubli. Le storie del calciomercato di questa calda estate ce lo ricordano ogni giorno. La difficoltà delle squadre italiane n competere con i grandi team europei è evidente. A mancare non sono solo le idee ma i soldi. Di fronte alla rassegnazione dei tifosi italiani per la partenza verso altri lidi di un’altra generazione di campioni, aumenta la curiosità per questi nuovi signori del mercato che parlano arabo, hanno nomi difficili da ricordare, sono più o meno imparentati tra loro, competono per la gloria e, soprattutto, hanno tanti tanti soldi. E tanti ne fanno, come nelle ultime ore ha dimostrato l’incredibile affare che lo sceicco Mansour, patron del Manchester City, ha fatto cedendo il nome dello stadio a Etihad Airways per 168 milioni.
Tutto era cominciato con la crisi economica del 2008, la debolezza delle banche europee e la necessità dei fondi sovrani del Golfo Persico di smobilitare ingenti capitali in valuta straniera, investendoli in tutto l’occidente. Fino ad allora gli interessi degli emirati nel mondo del pallone erano assai limitati: Al-Fayed con il suo Fulham (utilizzato più che altro per pubblicizzare i prestigiosi grandi magazzini londinesi Harrod’s), e la sponsorizzazione da parte di Emirates all’Arsenal (che ha portato alla costruzione dell’omonimo modernissimo stadio). Protagonista principale è stato lo sceicco Mansour bin Zayed al-Nayhan, fratello del sovrano di Abu Dabi, genero del sovrano di Dubai (quando si dice nozze d’oro), dotato a suo dire di un portafoglio con “molti molti miliardi di dollari” da investire .
Dopo l’ingente ma non fortunatissimo investimento nell’istituto di credito Barclays, guarda caso sponsor principale della massima serie inglese, in soli 4 giorni il multimilionario sceicco di Abu Dabi, conclude un operazione da 237 milioni di euro e fa suo il Manchester City. L’operazione ha un solo obbiettivo: scalare le vette del calcio inglese ed europeo, inserendosi nella stretta cerchia dei top team, le squadre che per il loro blasone e per i loro campioni, godono di un seguito planetario. Ad architettare l’operazione la potentissima e ambiziosa Lady take over, al secolo Amanda Stavley. La manager, che nel 1996 all’età di 23 anni e senza alcun titolo di studio cominciò la sua carriera imprenditoriale investendo un prestito di 180mila sterline in un ristorante nella periferia londinese, è diventata in pochi anni uno dei pezzi grossi della City, giovandosi delle fitte relazioni con i magnati mediorientali, nonché uno dei bersagli preferiti dall’invadenza dei tabloid.
E’ stata lei a guidare Mansour nell’operazione Barclays, incassando la commessa da capogiro di 40 milioni di sterline, è stata sempre lei a suggerire al danaroso cliente di investire nei citzens, abbracciando la sfida, economica e sportiva, di portare la secondo squadra di Manchester, dalla fama internazionale pressoché nulla e dovuta in gran parte alla gloria dei cugini in rosso, nel gotha del calcio mondiale. L’approdo del magnate nel mondo del calcio ha segnato un anno zero nella storia degli investimenti dei fondi sovrani e delle grandi famiglie reali. Già dalla fine degli anni 90 una quota sempre maggiore dei fondi disponibili sono stati orientati sotto la voce entertainment. All’inizio gli investimenti si erano concentrati sugli sport del jet set per eccellenza (l’ippica, il tennis, il golf) tramite la costruzione di nuove tappe dei rispettivi circuiti internazionali (con annessi super-investimenti in strutture avveniristiche).
Più tardi è arrivato il tempo dei motori, con il placet di Bernie Ecclestone, ingolosito dalle prospettive di profitto. Con il Manchester City i petrodollari cominciano a piovere in Europa e a sconvolgere gli equilibri dello sport più seguito al mondo. Ma anche a sconvolgere prezzi e mercati. Investimenti a cascata, acquisti record, un solo modo i operare: comprare tutti i giocatori che salgono alla ribalta della cronaca e del mercato, fare sentire il proprio peso in tutte le trattative, alzare i prezzi di tutti le operazioni. Man mano che la collezione di fuoriclasse, veri o presunti, andava crescendo (si cominciò con Robinho e poi Tevez, Balotelli, Milner, Senna, Turé per citarne alcuni) il Manchester City cresceva anno dopo anno. Seguendo questa strategia probabilistica, tanti errori e tantissimi tentativi, e sotto la guida tecnica di uno che di spese se ne intende come Roberto Mancini, il City ha raggiunto la qualificazione in Champions League e ha aggiunto alla sua scarna bacheca la prestigiosa Fa Cup. Il risultato sportivo, sicuramente prestigioso ma non eccezionale se si considera la spesa, sbiadisce se comparato al ruolo centrale che il team inglese si è ritagliato nel panorama calcistico mondiale, vero successo del petroliere di Abu Dabi. Mansour è diventato il re Mida del calciomercato, il presidente più amato da dirigenti e agenti, ha spostato l’asticella dei grandi colpi mostrandosi disponibile a pagare sempre qualcosa in più del prezzo di listino. Il suo potere è aumentato a dismisura tanto che, ad oggi, solo pochissimi club in tutto il mondo sono in grado di strappargli un giocatore (si pensi al recente caso Sanchez con il Barcellona, dove sembra prevarrà la volontà del giocatore di giocare con Messi rispetto alle maxi-offerte inglesi) e non di certo per ragioni economiche.
Anche dal punto di vista societario la gestione di Mansour si può dire in qualche modo di successo (considerando la necessità di investire ingenti cifre anche a fondo perduto). I ricavi sono schizzati alle stelle, e il management si è aperto a soluzioni innovative come quella di incaricare un dirigente di gestire le operazioni del calcio mercato in uscita, limitando la tendenza cronica alle minusvalenze di una gestione di questo tipo. Ma il calcio dei petrodollari non si è fermato qui. I successi e la visibilità di Mansour, inseriti nel contesto della manifesta rivalità tra i vari emirati per aggiudicarsi la palma di capitale del lusso, hanno spinto altri facoltosi personaggi a espandere le proprie mire nel calcio europeo. Nell’ultimo anno si sono moltiplicate le squadre che cadono nella rete dei signori del petrolio. Nel 2010 tocca al Malaga, acquistato da un membro della famiglia reale del Quatar, che sembra fare sul serio: le ultime voci di mercato parlano di un’offerta di 35 milioni per il regista offensivo dell’Inter Sneijder.
L’emirato, il più attivo negli investimenti sportivi, si è aggiudicato anche il prestigioso e preziosissimo marchio del Paris Saint Germain, al cui rilancio dovrebbe dedicarsi l’ex trainer di Milan e Inter Leonardo, e il costosissimo onore di sponsorizzare la franchigia più in vista del momento: il Barcellona delle meraviglie. Dubai, capitale dello sfarzo persico, sentendosi sotto pressione per i successi dell’acerrima rivale Abu Dabi si è aggiudicata invece il Getfae, la terza squadra di Madrid, con un operazione che sembra seguire lo stesso copione di quella che ha portato nelle mani del “parente-serpente” Mansour il Manchester City. Investire in una squadra non gloriosa, che versa in un momento di difficoltà, per aprirsi una roccaforte in una capitale del calcio europeo e competere con le grandi (solo la storia ci dirà con quale volume di investimenti). La prima mossa annunciata dai neo proprietari è il cambio del nome della squadra spagnola in Getafe Team Dubai, una mossa che farà storcere il naso ai tifosi più tradizionalisti ma che è indicativa per capire come la competizione tra questi stati, e di conseguenza l’importanza di apporre il proprio marchio sulle controllate, sia sentita.
A completare il quadro è il Bahrain, che dopo la scuderia McLaren (controllata al 30%) e il gran premio di casa, ha ampliato il proprio portafoglio sportivo garantendosi le glorie del Racing di Santander. La Spagna, a 519 anni dalla presa di Granada – che sancì il completamento della “reconquista” – torna così a parlare arabo.
Ma perché il calcio italiano non è stato finora investito dall’onda araba, se si esclude la piccola partecipazione libica nella Juventus? I motivi sono molteplici: dalla vantaggiosa situazione fiscale (motivo di contesa all’interno delle strutture dell’Ue) di cui gode il calcio spagnolo alla situazione economica in cui versa la Liga (4 miliardi di debiti) che rende possibili operazioni a basso costo e alla burocrazia, più snella in Inghilterra e in Spagna, che in Italia rende le trattative lunghe e difficili. Tasse, burocrazia, difficoltà nell’attirare investimenti: sembra di leggere l’agenda del ministro Tremonti, sono i nodi cruciali della nostra economia e del nostro calcio. Si aggiungano i problemi di una Lega, come la Serie A, che mai si è riuscita a riprendere dal declino iniziato alla fine degli anni novanta, trainato dalla vicende personali dei patron che avevano legato il proprio nome alle “sette sorelle” negli anni dello splendore, e terminata in modo esplosivo nelle aule dei tribunali. Mancano strutture, idee progetti per rendere appetibile la massima serie italiana, che trova sempre più difficoltà ad imporsi sul mercato internazionale.
La riscossa araba non si ferma al controllo dei team europei. Anche gli investimenti nelle infrastrutture, città dello sport e gli stadi faraonici devono trovare uno slancio. I paperoni hanno trovato in una sponda nell’eminenza grigia del calcio, il discusso numero uno Fifa Joseph Blatter. Dopo una serie di competizioni giovanili e asiatiche, il Quatar si aggiudica il piatto forte: il mondiale di calcio del 2022. L’investitura, giunta dopo una martellante campagna, che si è avvalsa di testimonial d’eccezione come Zidane, è stata macchiata dall’ombra della corruzione. La scelta del Quatar è diretta conseguenza delle caratteristiche strutturali del calcio del futuro, show business moderno che si deve slegare dalle competizioni nazionali per aprirsi al palcoscenico mondiale, andando a cercare nuovi finanziamenti nei luoghi dove essi abbondano. Un percorso seguito già dalla Formula 1 dove, per far posto ai moderni circuiti degli emirati, sono stati sacrificati tracciati che hanno fatto la storia delle quattro ruote. In questa direzione era orientata la scelta del mondiale sudafricano. Si assiste così a un paradosso: le competizioni delle grandi nazionali, sempre più scadenti sul piano sportivo, con giocatori usurati da campionati estenuanti, diventano il prodotto privilegiato da vendere sul mercato, grazie a una formula più accattivante per la televisione e alla portata globale degli eventi. E la strategia è vincente. Sudafrica 2010, con stadi semivuoti (si pensi ai seggiolini degli impianti di colori diversi per mascherare lo scarso successo al botteghino) e poco gioco, ma un giro d’affari senza precedenti. La nuova linea sembra premiare Blatter sempre più forte, rieletto al vertice della Fifa nonostante le indiscrezioni sulle mazzette. Quale futuro per il calcio? I petrolieri del Golfo Persico, parallelamente alla colonizzazione dell’Europa, stanno coltivando in casa campionati e squadre che investono sempre di più in giocatori saliti alla ribalta negli stadi occidentali. Fabio Cannavaro ne è un esemipio. Il fatto che qualche campione dal grande nome, a fine carriera, si faccia lusingare dagli ingaggi milionari, non intacca sicuramente la supremazia del calcio europeo, ma sicuramente è una tendenza da tenere d’occhio in prospettiva futura. “Il calcio è di tutti” diceva Zidane negli spot per promuovere Qatar 2022. Il calcio è, senza dubbio, di tutti i tifosi del mondo, ma i padroni del carrozzone hanno volti e idee nuove. Così, mentre i tifosi di tutto il mondo sognano uno “sceicco con la passione” come suggeriva scherzosamente Totti nei momenti di fibrillazione per il passaggio di proprietà del club romanista, a tutti gli appassionati di calcio non resta che sperare che i nuovi proprietari del pallone non se lo portino via, in Oriente.