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I mercati vedono rosa ma senza eccessi di euforia

ImagoEconomica

I mercati continuano a guardare il mondo attraverso lenti rosa ma non ci sono segni di euforia tali da fare pensare che siamo in una situazione particolarmente pericolosa. Il Trump rally aveva prodotto un posizionamento speculativo eccessivo su borse, bond, petrolio e dollaro, ben visibile nel mercato dei derivati, ma ora tutti gli eccessi sono rientrati.

Sulle borse si era creato un ingolfamento di posizioni speculative al rialzo sugli indici. Ora i derivati sono stati sostituiti con real money, strutturalmente più solido. Sui bond si era formato il più ampio posizionamento speculativo al ribasso mai rilevato, ma ora la situazione è in perfetto equilibrio. Su dollaro e petrolio le posizioni rialziste, a un certo punto di dimensioni davvero notevoli, sono state gradualmente smontate e ora anche questi due mercati sono puliti.

Un mercato pulito non significa assenza di rischi, ovviamente, ma ci dice che il presentarsi eventuale di una sorpresa non verrebbe amplificato a dismisura da un posizionamento sbagliato del mercato.

L’assenza di euforia è evidente non solo nel posizionamento concreto, ma anche a livello di narrazione. Si passa dal tempo futuro al tempo presente. Non si dice più, o si dice molto meno, che accadranno cose meravigliose su infrastrutture, riforma fiscale e deregulation, ma si fa notare che gli utili e la crescita globale stanno andando bene in questo momento preciso. Il motore del mercato non è più la fantasia ma la realtà.

Il Trump rally si è progressivamente scarnificato ed essenzializzato, ma non è finito. Ha perso per strada il supposto bear market dei bond e il supposto bull market del dollaro e delle materie prime, che ne erano in fondo solo dei corollari, e ha tenuto in vita il cuore, ovvero il grande rialzo azionario.

Lentamente e sottilmente il Trump rally ha dunque subito una metamorfosi e si è trasformato nel vecchio paradigma di Goldilocks, quello di una crescita economica abbastanza calda da fare bene alla borsa ma non così calda da fare male ai bond.

Attenzione, il mercato non sta cambiando idea sul lungo termine. Inflazione e tassi sono ancora visti in rialzo nei prossimi anni, ma in modo dolce, non allarmante e non dannoso per la componente obbligazionaria dei portafogli.

Le riforme di Trump ispirano simpatia e danno fiducia, ma non sono più prese alla lettera. Le ultime proposte sul fisco, presentate mercoledì da Mnuchin, piacciono molto e danno l’impressione che ci si sta muovendo nella direzione giusta, ma non sono incorporate nei prezzi. L’abbassamento dell’aliquota per le imprese al 15 per cento comporterebbe da solo un aumento degli utili del 10 per cento, ma nessun analista di nessuna casa l’ha ancora incluso nel suo foglio Excel e nessuno strategist lo ha inserito nella sua narrazione, nemmeno come ipotesi. Per il momento le riforme sono per il mercato una piacevole musica di sottofondo, non molto di più. Ancora due mesi fa si pensava che Obamacare e fisco sarebbero arrivati prima dell’estate, ora si è tutti consapevoli del fatto che il percorso sarà molto più lento e complicato. Reagan ci mise del resto sei anni per fare approvare al Congresso (anche con qualche voto democratico) la sua riforma fiscale, a ben vedere meno ambiziosa di quella di Trump.

Questa volontà di restare con i piedi per terra è per ora evidente anche in Europa. Benché la vittoria di Macron venga data per certa (anche se più la si dà per sicura più alto sarà il numero degli elettori che se ne staranno a casa al secondo turno, rendendola così un po’ meno certa) a nessuno è venuto in mente di ipotizzare seriamente uno spettacolare rilancio politico del progetto europeo. E nessuno, nemmeno in Germania, osa ancora chiedere davvero alla Bce di accelerare la normalizzazione della politica monetaria dell’eurozona. Quanto a Draghi, la sottolineatura rigorosa e compiaciuta dei miglioramenti del ciclo economico si accompagna a quella ancora più accorata della necessità di rimanere ancora con il piede premuto sull’acceleratore il più a lungo possibile.

Dopo la Francia, del resto, ci sarà l’Italia. Si capirà presto se si voterà in autunno o nel 2018, ma è evidente che l’autunno avrebbe dei chiari vantaggi. La Bce avrebbe un ottimo motivo per rinviare a fine anno qualsiasi accenno a politiche meno espansive. La formazione di un governo in Italia, presumibilmente con forze di sistema, permetterebbe di dichiarare chiusa la  stressante e lunga stagione elettorale apertasi con Brexit. L’Europa, a quel punto, avrebbe da temere come minaccia esistenziale solo una recessione globale. In mancanza di questa, l’orizzonte politico apparirebbe sufficientemente sgombro per i prossimi quattro anni, un’eternità per i mercati.

La vittoria di Macron al secondo turno, quindi, darà ai trader l’occasione per prendere qualche profitto, ma non esaurirà le potenzialità del rialzo europeo. Il superamento dell’ostacolo italiano darà agli investitori globali ancora esitanti il segnale finale per rimettere piede in Europa. Il peso dell’Europa negli indici e quindi nei portafogli dei grandi investitori internazionali è oggi molto più basso di quello che era nel 2009 e pur considerando la diversa composizione delle nostre borse e la marginalità strutturalmente più bassa rispetto all’America lo spazio per un’allocazione geograficamente meno sbilanciata è ancora ampio.

L’euro ha cominciato a dare una mano in questa direzione. È vero, il suo rafforzamento potrà creare qualche problema ai margini degli esportatori, ma solo se si supererà la soglia di 1.15. In termini di flussi, d’altra parte, per un investitore americano o asiatico non c’è niente di meglio che investire in una borsa sottovalutata in recupero denominata in una valuta sottovalutata in recupero.

Non si è mai presentato in natura il caso di una borsa europea che sale in presenza di una borsa americana che scende. L’America non sembra però prossima a un bear market e sarà sufficiente un suo andamento laterale perché l’Europa continui ad andare bene.

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