Joe Biden non è il primo presidente in carica ad abbandonare la corsa per un nuovo mandato alla Casa Bianca. Sebbene le circostanze in cui è maturata la sua rinuncia siano del tutto particolari, esistono alcuni precedenti simili.
L’esempio di George Washington e i precedenti ottocenteschi (Polk, Buchanan e Hayes)
Il primo a rinunciare alla candidatura per la riconferma alla guida degli Stati Uniti fu proprio il primo presidente. Nel 1796 non esistevano ancora le convenzioni nazionali né le elezioni primarie e la formazione dei partiti era in una fase embrionale. Non era stato neppure ancora approvato il XXII emendamento alla Costituzione che, ratificato nel 1951, avrebbe limitato a due soli mandati la possibilità di ricoprire l’incarico di presidente. George Washington, padre della patria in quanto comandante in capo dell’esercito continentale che aveva assicurato agli Stati Uniti l’indipendenza sconfiggendo gli inglesi e presidente della Convenzione di Filadelfia che aveva varato la Costituzione federale nel 1787, non avrebbe avuto difficoltà a ottenere un terzo mandato. Ma non volle ricandidarsi nel 1796, amareggiato dalle polemiche che lo avevano investito l’anno precedente per il suo appoggio al trattato di Jay, con il quale nel 1794 gli Stati Uniti avevano temporaneamente risolto le controversie con la Gran Bretagna, secondo molti facendo concessioni eccessive a Londra contro gli interessi nazionali americani.
La rinuncia di Washington stabilì un precedente informale che indusse i suoi successori a ritirarsi a vita privata dopo il completamento del secondo mandato anche prima del varo del XXII emendamento, con le eccezioni di Franklin D. Roosevelt, che fu eletto ben quattro volte alla Casa Bianca nel 1932, 1936, 1940 e 1944, nonché del suo quasi omonimo Theodore Roosevelt che, dopo aver guidato due amministrazioni tra il 1901 e il 1909, cercò senza successo di correre una terza volta per lo Studio Ovale nel 1912.
Tuttavia, tre presidenti rinunciarono alla candidatura per un secondo mandato. Il primo fu il democratico James K. Polk che, fino dall’accettazione della nomination per le elezioni del 1844, annunciò che, se avesse vinto, avrebbe ricoperto un solo mandato e non si sarebbe ripresentato nel 1848. In questo modo, intese disinnescare in partenza una delle rivendicazioni della forza politica rivale, il partito Whig, che proponeva da tempo di vietare la rieleggibilità del presidente. Lo stesso impegno fu preso dal democratico James Buchanan, eletto nel 1856. La sua incapacità nel fronteggiare la crisi finanziaria del 1857 e i contrasti sempre più laceranti e cruenti sullo schiavismo gli sconsigliarono di disattendere la promessa fatta, in vista del voto nel 1860. Il terzo fu Rutherford B. Hayes che, dopo essere stato accusato di aver vinto le elezioni del 1876 grazie a brogli commessi in Carolina del Sud, Florida e Louisiana, preferì non correre per un secondo mandato nel 1880.
I casi del Novecento: Truman e Johnson
Il democratico Harry S. Truman non era soggetto al limite dei due mandati che non era applicabile al presidente in carica al momento della ratifica. Era entrato alla Casa Bianca nel 1945 alla morte di Franklin D. Roosevelt in quanto suo vice senza essere stato eletto, come previsto dalla Costituzione per dare continuità al governo in caso di decesso, destituzione o inabilità a svolgere le funzioni di capo dell’esecutivo del presidente in carica. Dopo la bruciante sconfitta dei democratici nelle elezioni di mid term del 1946, Truman fu sottoposto a pressioni perché non si candidasse nel 1948. Il senatore William Fulbright, che pure era democratico, gli suggerì addirittura di dimettersi subito senza completare il mandato che aveva ereditato da Roosevelt. Truman non cedette ai tentativi di farlo uscire di scena e due anni dopo fu confermato alla Casa Bianca. Ma, nel 1952, il suo consenso si ridusse ai minimi termini. Lo stallo nella guerra di Corea, intollerabile agli occhi di un Paese ancora inebriato dalla vittoria nel secondo conflitto mondiale, alcuni casi di corruzione di cui si erano macchiati esponenti del governo e l’accusa di debolezza nel contrastare le infiltrazioni dei comunisti nell’amministrazione dopo l’esplosione della campagna maccartista lo avevano reso estremamente impopolare. Di fronte a sondaggi che lo davano per sconfitto contro qualsiasi candidato repubblicano, Truman decise di non presentarsi per un terzo mandato.
La rinuncia alla candidatura per la Casa Bianca più recente e più celebre fu quella del democratico Lyndon B. Johnson nel 1968. Grande architetto dell’integrazione razziale degli afroamericani, potenziatore dello stato sociale ed eletto alla presidenza nel 1964 con uno dei margini più ampi di tutto il Novecento, Johnson era sicuro di venire rieletto. Sarebbe stato il suo terzo mandato. Nel primo era subentrato alla Casa Bianca dopo l’assassinio di John F. Kennedy il 22 novembre 1963. Poiché per completare l’amministrazione iniziata dal suo predecessore era rimasto in carica per soli quattordici mesi, il XXII emendamento gli consentiva di candidarsi una seconda volta dopo il 1964 in quanto il limite dei due mandati è riferito ai quelli pieni o superiori ai due anni di durata. Tuttavia, come Truman nel 1952, neppure Johnson aveva più la maggioranza degli statunitensi dalla sua parte nel 1968. A suo svantaggio pesava la guerra del Vietnam. L’avere attuato l’escalation militare nel sud-est asiatico in quello che era ormai divenuto un conflitto bellico estremamente impopolare gli aveva alienato il sostegno di gran parte degli statunitensi. Nelle primarie democratiche svoltesi nel New Hampshire Johnson riuscì a sconfiggere il senatore Eugene McCarthy, semisconosciuto ma pacifista e fautore del ritiro dal Vietnam, solo di strettissima misura. Dopo il voto, Walter Cronkite, l’influente conduttore del telegiornale serale della CBS, la rete televisiva con l’audience maggiore, criticando implicitamente l’operato del presidente, dichiarò che gli Stati Uniti non erano nelle condizioni di vincere il conflitto nel Vietnam. Johnson commentò le parole dell’autorevole giornalista, dicendo che se aveva perduto il favore di Cronkite, aveva perduto quello dell’americano medio. Concluse, quindi, che non avrebbe avuto i voti per venire rieletto. Così, la sera del 31 marzo 1968, in un drammatico discorso al Paese a reti televisive unificate, annunciò che non avrebbe concorso per la nomination democratica alla presidenza e che non l’avrebbe accettata se il partito gliela avesse conferita lo stesso, in modo da poter dedicare gli ultimi mesi del suo mandato a negoziare la pace in Vietnam.
La storia e le prospettive del partito democratico quest’anno
I precedenti non depongono a favore del partito democratico dopo il ritiro di Joe Biden. Solo nel 1880 il partito del presidente in carica che aveva rinunciato a una nuova candidatura fu in grado di riconquistare la Casa Bianca. Quell’anno il repubblicano James A. Garfield, che aveva raccolto il testimone da Hayes, sconfisse il democratico Winfield Hancock. Invece, in precedenza, nel 1848 Lewis Cass, candidato dai democratici al posto di Polk, era stato battuto dall’esponente del partito Whig Zachary Taylor e nel 1860 il repubblicano Abraham Lincoln aveva prevalso su Stephen A. Douglas e John C. Breckinridge, i candidati schierati dalle due diverse fazioni di un partito democratico sempre più diviso dalla diatriba sulla schiavitù. In seguito, nel 1952 il repubblicano Dwight D. Eisenhower trionfò su Adlai Stevenson, che aveva vinto le primarie democratiche alle quali Truman non aveva partecipato, e nel 1968 il repubblicano Richard M. Nixon si affermò su Hubert H. Humphrey, che aveva preso il posto di Johnson sulla scheda democratica. La successione di Washington non può essere presa in considerazione perché il primo presidente non era legato a una forza politica specifica. In altre parole, in appena un caso su cinque, il partito dell’inquilino della Casa Bianca ha tratto vantaggio dal ritiro del presidente, sebbene le rinunce alla ricandidatura siano state anche annunciate con un maggiore anticipo sulla data delle elezioni rispetto al momento della diffusione della lettera di Biden. L’unico successo ha arriso ai repubblicani, mentre tutte e quattro le sconfitte hanno pesato sui democratici.
Stefano Luconi
Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25 euro edizione cartacea, 6,99 euro edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35 euro edizione cartacea, 6,99 euro edizione Kindle