X

I giovani e soprattutto i laureati riscoprono il lavoro dipendente mentre il lavoro autonomo diminuisce

Freepik

Nelle regioni italiane la quota di lavoratori autonomi è molto più elevata che nelle altre regioni europee, eccetto quelle greche e, in parte, polacche e romene. Ciò è sì sintomo di intraprendenza e di alta cultura del lavoro, ma è anche lo specchio di dimensioni aziendali inadeguate a prefigurare percorsi di crescita professionale per i giovani, che sempre meno vogliono lavorare da soli e sempre più ritengono vincente il lavoro in squadra. La riduzione dei lavoratori dipendenti è, allora, una buona notizia.

Tanti lavoratori autonomi: un’anomalia italiana (e delle sue regioni) 

Nel 2005 in tutte le regioni italiane la quota di lavoratori autonomi sul totale degli occupati superava il 20%, con punte del 27,3% in Umbria, del 27,2% in Molise e del 26,7% in Toscana. Valori che nel 2005 in Europa erano superati oltrepassati solamente da quelli delle regioni greche e da alcune regioni in Polonia e Romania. Tra le regioni del Nord-est i valori più elevati si riscontravano in Emilia-Romagna (25,5%), Veneto (23,5%); le più basse in Friuli-Venezia Giulia (21,3%), a Bolzano (20,8%) e Trento (20,5%).  

Il dato era ben più alto della mediana, pari al 13% calcolata considerando tutte le regioni europee. Questa “autonomia” è stata di volta in volta osannata o criticata. Osannata come elemento di intraprendenza, capacità di adattamento, cultura del lavoro, voglia di ascesa sociale, dote di flessibilità, autorganizzazione sociale per tramite dei distretti industriali o comunque dei sistemi locali del lavoro. Criticata per il nanismo delle imprese, il familismo della governance, il ricorso a pratiche di lavoro dipende mascherato, la diffusione dell’evasione fiscale e contributiva (causa di macelleria sociale, disse Mario Draghi quando era ancora “solo” Governatore della Banca d’Italia). 

Sul piano oggettivo, resta che l’alta autonomia rappresenta un’anomalia rispetto agli altri sistemi economico-sociali europei. Ma le statistiche dicono che questa anomalia si sta riducendo. 

Infatti, nel giro di 14 anni la situazione è molto cambiata. La quota di lavoratori autonomi è diminuita in quasi tutte le regioni italiane (fanno eccezione il Molise, dove passa da 27,2% a 27,8%, e la Calabria, da 23,6% a 24,6%). Le variazioni più cospicue si registrano in Emilia-Romagna, dove la quota di lavoratori autonomi passa da 25,5% a 19,3%, in Umbria, da 27,3% a 22,5%, e in Piemonte, da 24,8% a 20,1%. In Veneto la quota di lavoratori autonomi si riduce di 4,2 punti percentuali, di 4,1 in Friuli-Venezia Giulia, di 3,8 p.p. a Bolzano e 3,9 p.p. a Trento. In Lombardia la variazione è pari a 4,4 punti percentuali.  

Nello stesso periodo il valore mediano delle regioni europee rimane sostanzialmente invariato (da 13% a 12,8%). Dunque, un’anomalia minore ma pur sempre presente e notevole. 

Nel 2005-2019 i valori delle regioni italiane si avvicinano a quelli delle altre regioni europee, pur rimanendo differenze sostanziali

Nel medesimo periodo, in Italia, i lavoratori indipendenti diminuiscono di quasi 700mila unità, passando da 5.296.000 a 4.619.000 con una riduzione del 12,8%. Nei 27 paesi dell’UE la variazione è pari a 3,6%. 

La diminuzione è figlia di diversi fattori, ad esempio la ristrutturazione della distribuzione commerciale al dettaglio, che ha comportato la chiusura di numerosi piccoli punti vendita, ma anche della modifica di alcune normative (si pensi al jobs act), che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro.

Nonostante la diminuzione, l’Italia ha comunque uno dei tassi di lavoratori autonomi più alti in Europa, anche se l’andamento indica un processo di convergenza verso i valori degli altri Paesi.  

Rispetto al passato i giovani (laureati) sono meno interessati al lavoro autonomo 

La scelta tra lavoro autonomo e lavoro dipendente è influenzata da diversi fattori: incidono le norme giuridiche e fiscali adottate dai diversi Paesi, le diverse culture del lavoro), ma anche alcune condizioni legate alla famiglia (la presenza tra i genitori di un lavoratore autonomo aumenta la probabilità che il figlio scelga il lavoro autonomo) , così come a nuove e diverse percezioni sul lavoro delle generazioni. 

Se si considera la fascia di età 14-39 nel periodo 2000-19 i lavoratori indipendenti passano da 2.298.000 a 1.300.000 (-43,4%), mentre la popolazione totale nella stessa fascia di età è diminuita del 14%.  

A fronte di un calo di quasi un milione di lavoratori il numero di laureati tra gli indipendenti rimane sostanzialmente costante (+3%), attorno alle 500.000 unità. Il dato non deve trarre in inganno: nello stesso periodo il numero di laureati nella fascia 14-39 aumenta del 39%.

Laureati costanti a fronte di una diminuzione di quasi un milione di autonomi 

Viceversa, nell’ambito del lavoro dipendente nella classe 15-39 anni, a fronte di una diminuzione complessiva di quasi il 25% (pari a oltre 2milioni in meno di lavoratori) si registra una crescita significativa dei laureati che passano da 1,1 a 1,6 milioni (+49%). Confrontando i due ambiti è, quindi, possibile affermare che i giovani laureati italiani “preferiscono” il lavoro dipendente. Il dato è tanto più evidente se si osserva come tra i 500.000 giovani laureati indipendenti siano compresi coloro che svolgono professioni ordinistiche, che richiedono necessariamente una laurea e per le quali nel corso dell’ultimo decennio si è registrato un aumento significativo di iscritti agli albi. Riassumendo: l’anomalia dell’Italia di essere il Paese in Europa con la più elevata diffusione di lavoratori indipendenti negli ultimi anni è andata attenuandosi, anche per un effetto generazionale, perché la diminuzione del numero di lavoratori indipendenti è stata più marcata tra i giovani (nella fascia 14-39 anni) e tra i giovani laureati.

Negli ultimi anni i giovani, e in particolare i laureati, preferiscono il lavoro dipendente.  

Siamo di fronte ad un processo di consolidamento delle imprese italiane?

Tra il 2011 e il 2018 il numero delle microimprese (quelle con 3–9 dipendenti) e l’occupazione da queste generata sono diminuiti sia in valore assoluto che in relazione al loro peso sul totale delle imprese. Questa dinamica, in contrasto con quella del decennio precedente, è indice della più recente progressione del sistema produttivo italiano verso una maggiore dimensione media, confermata dal fatto che nello stesso periodo è aumentato il peso occupazionale delle imprese di grandi dimensioni (quelle con più di 250 addetti), che è passato dal 27% del 2011 al 28,3% del 2018 (era il 26,8% nel 2001). Ma queste quote sono ancora molto lontane da quelle prevalenti in tutti gli altri paesi europei. 

Una buona notizia se letta nell’ottica della capacità di attrarre talenti da altri Paesi e attivare, finalmente, quei percorsi di brain circulation (persone vanno via, ma altre arrivano, ossia brain drain coniugato con brain gain) di cui tanto si parla, in un contesto che fino ad ora ha visto l’Italia come fornitore netto di talenti per gli altri paesi.

**** I due autori sono ricercatori senior della Fondazione Nord Est

Related Post
Categories: Lavoro