Giudizio dell’autore:
Questa settimana vi proponiamo un nuovo genere di film western: crepuscolare e teatrale. Si tratta della storia di due fratelli killer professionisti assoldati per fare fuori un misterioso chimico durante l’epico momento della corsa all’oro nel selvaggio West degli Stati Uniti alla fine dell’800. I fratelli Sisters raccontano di un epoca ormai verso il suo declino, la civiltà del XX secolo è alle porte con l’arrivo delle ferrovie, lo sviluppo della rete elettrica e gli indiani nativi confinati nelle riserve e ormai pacificati: da questo punto di vista, il film è nel pieno solco dei classici del genere: il regista Jacques Audiard (con questo film ha vinto il Leone d’argento al recente Festival di Venezia e, prima ancora, numerosi altri prestigiosi riconoscimenti internazionali) mescola sapientemente i grandi scenari, le infinite praterie, le sparatorie dentro e fuori i saloon con dialoghi intimisti insieme a riflessioni profonde sul senso della vita.
La storia inizia con un compito che gli affida un misterioso quanto potente commodoro (una breve comparsata di Rutger Hauer). Obiettivo è uccidere un ambiguo personaggio che gli avrebbe rubato oro e dollari. Questo personaggio però è anche un chimico che conosce una formula segreta per isolare il metallo prezioso dalle pietre grezze sul fondo dei torrenti e intorno a questa caccia all’uomo, tra inseguimenti e sparatorie, si compie il destino dei due fratelli. Le prime immagini sono scoppiettanti: una sparatoria nel buio della notte, solo lampi delle pistole e dei fucili e si capisce subito la “professionalità” dei due fratelli.
Nel loro spietato lavoro di killer assoldati e prezzolati si ritengono pure bravi e capaci e ammettono che non sono in grado di fare altro di meglio. Per quello che vediamo, ci riescono pure. Il film però prende subito una piega insolita, anomala nella comune percezione del genere cinematografico. I dialoghi tra i due fratelli riportano alla loro infanzia, al padre violento dal quale forse hanno avuto l’imprinting, ai rapporti fraterni che li legano indissolubilmente. La narrazione del film prosegue per buona parte su questa traccia, attrae e incuriosisce lo spettatore che rimane sempre in sospeso, in attesa di qualcosa che sembra dover accadere da un momento all’altro.
Qualcosa succede, gli episodi movimentati come pure gli squarci sul mondo del West prossimo al cambiamento epocale, non mancano e sono assai suggestivi. Però il tutto appare confezionato più per una dimensione, appunto, teatrale piuttosto che cinematografica. Vengono in mente le sequenze di praterie sconfinate come pure di montagne innevate viste tante volte. Per rimanere a recenti titoli del genere citiamo solo Quentin Tarantino con The Hateful Eight, esattamente al contrario di come avviene in questo film, assume una lettura ampiamente e profondamente tipica del grande schermo. A proposito del citato film di Tarantino è stata annunciata una serie ad episodi per Netflix. Nulla a che vedere con C’era una volta il West di Sergio Leone (1968) dove pure il crepuscolo di un’era si leggeva già nel titolo. In questo caso però, si apprezza più uno spirito di narrazione, una scrittura, che punta dritto al cuore degli individui piuttosto che sui simboli, sulle icone del genere.
È probabile che i puri e duri appassionati di questo tipo di pellicole possano rimanere delusi (per quanto, come scritto, gli ingredienti fondamentali sono tutti rispettati) per non trovare quel senso fantastico e action che ci si potrebbe attendere. Però, specie nella seconda parte della pellicola, tutto si ricuce e si compatta in un prodotto cinematografico rispettoso dei canoni tradizionali di questo tipo di film. Ultima notazione la meritano i due protagonisti: John C. Reilly (Eli) e Joaquin Phoenix (Charlie). Di quest’ultimo vale la pena ricordare un datato quanto interessante 8mm – Delitto a luci rosse con la regia di Joel Schumacher (1999).