Come non bastasse la contrapposizione tra fautori della mobilità elettrica e gli irriducibili di quella termica, ora anche sul fronte degli ambientalisti più radicali affiora un nuovo duello. Sempre di trazione elettrica si parla, ma da una parte si schierano i tifosi dell’elettricità stoccata nelle batterie, dall’altra quelli dell’elettricità stoccata nelle bombole, sotto forma di idrogeno. Anche in questo secondo caso il motore sarà elettrico, ma l’energia arriverà da un dispositivo chiamato “cella a combustibile” che trasforma l’idrogeno in elettricità, direttamente in vettura.
Un bell’assist ai sostenitori delle celle a combustibile l’ha dato il ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani affermando che la tecnologia delle batterie potrebbe essere “di passaggio”; e magari fra 10 anni viaggeremo tutti ad idrogeno. Anche la Commissione Europea, tracciando i piani climatici a medio-lungo termine, ha inserito l’idrogeno tra le soluzioni necessarie per raggiungere la piena decarbonizzazione di alcuni settori, facendo riferimento in particolare alle applicazioni industriali. Questa scelta non è un caso: nella lotta al cambiamento climatico è infatti importante utilizzare le risorse e le tecnologie in maniera efficiente; nella mobilità non vale la pena di usare l’idrogeno (se non in specifici contesti, come si vedrà più avanti). Peraltro, le tecnologie con cui si produce questo elemento sono ancora dispendiose da sviluppare. La Commissione Europea renderà però disponibili contributi al fine di accelerare la riduzione dei loro costi, permettendo la commercializzazione dell’idrogeno su larga scala con l’obiettivo di decarbonizzare le applicazioni sopraccitate.
Ma prima di capire dove è meglio usare l’idrogeno, bisogna valutare quanto sia “pulito”, quindi sostenibile. È l’elemento più presente nell’Universo e dunque è inesauribile. Tuttavia, è sempre associato ad altri: per esempio, all’ossigeno nell’acqua (H2O), o al carbonio nel metano (CH4). Perciò va “estratto”, fornendo dell’energia per effettuare questa separazione. La grandissima parte di quello oggi in uso, e l’unico che si possa produrre a costi accettabili, è ottenuto dal metano, che è un combustibile fossile, attraverso una reazione detta di stream reforming. Non è affatto sostenibile, perché nel processo libera grandi quantità di gas serra (CO2) e viene infatti definito come “grigio” e scartato in partenza.
Molte società petrolifere e del gas, l’ENI per esempio, lavorano su un idrogeno detto “blu” che deriva anch’esso dallo stream reforming del metano, ma con contestuale sequestro e stoccaggio del carbonio. Procedimento, questo, ancora non competitivo come costi, non esente da dispersioni sia di metano nella sua produzione e trasporto (anch’esso gas serra, con effetti climalteranti più accentuati della CO2,) sia di anidride carbonica, visto che il processo di cattura e stoccaggio è ben lontano da avere efficienze del 100% e che è complicato dal problema di reperire un sito sicuro per lo stoccaggio nel sottosuolo. Inoltre, tutto il processo richiede elevate quantità di energia per esser realizzato.
L’unico idrogeno veramente pulito è quello “verde”. Ricavato dall’elettrolisi dell’acqua, libera in atmosfera solo ossigeno puro e non genera CO2. Bingo? Quasi. Il procedimento di elettrolisi richiede tantissima energia: tre volte di più di quella che riesce a stoccare e successivamente restituire. Quindi, visto che è una risorsa scarsa, l’idrogeno verde è meglio usarlo solamente dove non esistono alternative più efficienti: questi settori sono principalmente industriali. D’altro canto, se davvero disponessimo, un giorno, di elettricità 100% “green”, perché non utilizzare direttamente quella, anziché buttarne due terzi per fare idrogeno?
A prescindere da tutto ciò, la tecnologia dell’elettrolizzazione dell’idrogeno “verde” ha costi che oggi sono più che doppi rispetto a quelli del “grigio”, ma numerosi studi (tra cui figura un report dell’Energy Transitions Commission) prevedono che diventerà competitiva (rispetto all’idrogeno “grigio”) entro la fine di questo decennio. Infine, l’idrogeno va maneggiato con cura. È infiammabile. È la molecola più piccola dell’universo quindi può disperdersi facilmente se i contenitori hanno la minima porosità. Tanto più che va compresso a 700 atmosfere per ridurne il volume e trasportarlo, distribuirlo ed erogarlo non è un gioco da ragazzi.
Più nel concreto, i settori dove nel breve periodo l’idrogeno verde vedrà le sue prime applicazioni industriali sono quelli che già utilizzano l’idrogeno derivato da combustibili fossili come materia prima: ad esempio servirà nella produzione sostenibile dell’ammoniaca, un prodotto base nei fertilizzanti e in tantissimi altri processi chimici.
Successivamente, in qualità di combustibile sarà indispensabile per sostituire il carbone e il metano nei processi industriali basati sul calore, come la siderurgia, la ceramica e nei cementifici. Anche nel trasporto aereo pare essere l’unica alternativa al cherosene per alimentare i motori jet. Ma le navi container transoceaniche? I treni che ancor oggi percorrono con motori diesel linee per il 57% non elettrificate? Il trasporto marittimo e ferroviario sono ulteriori ambiti in cui l’idrogeno verde potrà avere un suo sviluppo visto che non vi è una alternativa con gli accumulatori (ad oggi).
Per concludere l’analisi, il Potsdam Institute for Climate Impact Research sentenzia che l’auto ad idrogeno è una “falsa promessa”. E il presidente della Volkswagen Herbert Diess, dice in un tweet: “È stato dimostrato che l’auto a idrogeno NON è la soluzione per il clima. I falsi dibattiti sono una perdita di tempo. Per favore, ascoltate la scienza!”. Pertanto, a differenza dell’auto elettrica dotata di batteria che già vediamo nelle nostre città, l’auto ad idrogeno (quasi certamente) non la vedremo mai nella vita di tutti i giorni.