Dopo un anno di presidenza russa che ha fatto quasi passare in secondo piano le iniziative e l’allargamento dei Brics, che ormai rappresentano oltre il 40% della popolazione mondiale e il 37% del Pil globale (più del G7), nel 2025 la presidenza di turno del gruppo degli ex emergenti spetta al Brasile, il Paese che più di tutti rappresenta il punto di contatto tra l’Occidente (è alleato di Usa e Europa e ha ospitato l’ultimo G20 a novembre) e l’asse alternativo che gravita intorno a tre potenze come Cina, Russia e India. I Brics, fondati nel 2009, inizialmente erano costituiti dai citati Paesi e dal Sudafrica, già dall’anno scorso hanno integrato a tutti gli effetti Iran, Arabia Saudita (anche se ha praticamente disertato l’ultimo vertice a Kazan, lo scorso ottobre), Egitto, Emirati Arabi e Etiopia, e nel 2025 dovrebbero accogliere nella famiglia degli “altri” anche Cuba, Bolivia, Indonesia, Bielorussia, Kazakistan, Malesia, Thailandia, Uganda e Uzbekistan. E se non ci fosse stato il veto proprio del Brasile di Lula, sarebbe entrato anche il Venezuela di Nicolas Maduro, da tempo nel mirino di Washington e Bruxelles.
Oggi i Brics, più che economie emergenti, rappresentano il nuovo ordine mondiale, e la sfida del Brasile sarà quella di promuoverne il rafforzamento senza però indebolire l’asse euro-atlantico, di cui il Paese sudamericano è alleato. I Brics attualmente, senza considerare le prossime aggregazioni, rappresentano il 26% del commercio globale, il 44% delle riserve di petrolio, il 53% delle riserve di gas naturale, il 72% delle riserve di “terre rare”, e le maggiori riserve di acqua dolce del pianeta.
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La nuova valuta: il Brics come strumento per dribblare le sanzioni
La loro unione costituisce dunque un blocco economico e strategico solido e credibile, anche se politicamente eterogeneo e non sempre orientato alla democrazia e al rispetto dei nuovi paradigmi ambientali internazionali: i 10 Paesi membri, infatti, sono responsabili del 70% della produzione di carbone dell’intero pianeta. La sfida principale di questa fase è la creazione di una nuova moneta, il Brics, annunciata dal presidente Vladimir Putin a ottobre e che diventerebbe la valuta di riferimento delle economie aderenti per le transazioni effettuate tra di loro, in modo da liberarsi dalla dipendenza dal dollaro. In realtà il Brics non punta a distruggere il dollaro ma solo a creare un sistema finanziario parallelo, in grado soprattutto di proteggersi dalle sanzioni internazionali e di fatto neutralizzarle. A sostenerlo è l’economista brasiliano Paulo Nogueira Batista Jr, ex direttore del Fondo Monetario Internazionale che in una recente intervista al sito Poder360 ha affermato di aver avuto occasione di parlare direttamente con Putin, il quale avrebbe detto: “Noi non siamo contro il dollaro. È il dollaro che è contro di noi. Sfidare il dollaro e l’economia statunitense non sarebbe possibile e comunque non è il nostro obiettivo. Il Brics servirà a renderci immuni alle sanzioni”. Nel frattempo però la presidenza degli Stati Uniti sta per essere assunta da Donald Trump, il quale ha già minacciato ritorsioni: se davvero i Brics abbandoneranno il dollaro, i loro prodotti verranno tassati fino al 100%. Gli esperti sostengono che questo non sia tecnicamente possibile viste le dimensioni del blocco Brics, ma non mancheranno schermaglie.
Brics valuta 2025: cambio previsto a 34 dollari
Al momento non è chiaro quando esordirà davvero il Brics, che comunque non sostituirà le monete dei singoli Paesi ma verrà appunto usato principalmente come valuta finanziaria, per gli scambi tra i vari Stati membri. Dopo l’anteprima presentata da Putin a Kazan, stanno già circolando in rete versioni (non ufficiali) delle nuove banconote, mentre il cambio dovrebbe essere di circa 34 dollari per 1 Brics, ossia poco meno di 33 euro per 1 Brics. Quasi metà del pianeta, “l’altra metà” verrebbe da dire dal punto di vista europeo, si sta seriamente organizzando. E non va sottovalutata nemmeno militarmente, dato che conta su almeno quattro potenze nucleari: Russia, Cina, India e Iran.