Il D’Annunzio della piccola borghesia
Inizia con Guido da Verona il primo di una serie di articoli dedicati agli autori best-seller del passato, dall’unità d’Italia fino alla seconda guerra mondiale. Questi ritratti sono stati scritti da Michele Giocondi, storico della cultura e studioso dell’editoria italiana.
Parlare dei libri che leggevano i nostri nonni significa ripercorrere una parte significativa della nostra cultura e identità nazionale come pure della storia. La storia, come ci insegna la grande scuola delle “Annales”, non è fatta solo di vicende politiche importanti, come guerre, paci, trattati, governi, elezioni politiche, rivoluzioni, dittature e via dicendo. Ma è fatta anche di piccoli accadimenti quotidiani: cosa si mangiava, cosa si beveva, come ci si vestiva, come erano le case in cui si abitava e così via.
Fra questi “piccoli accadimenti” un ruolo importante lo occupano le letture che effettuavano le persone dell’epoca, cioè i libri che realmente leggeva la gente comune. Non quindi i grandi titoli che sono entrati a buon diritto nelle storie letterarie, non gli scrittori che si studiano a scuola, non i poeti che hanno vinto il premio Nobel; ma i romanzieri che ai loro tempi hanno riempito le vetrine dei librai.
Proprio come ai nostri tempi le riempiono tanti scrittori di successo, con le pile dei loro romanzi accatastati sul pavimento, e che, fra qualche anno, nessuno ricorderà più. Ma noi proprio di questi vogliamo parlare: degli scrittori che vendevano centinaia di migliaia di copie, che ai loro tempi furoreggiavano nelle classifiche dei best seller, che facevano sognare i lettori dell’epoca, che erano proprio …i nostri nonni, o dato che il pubblico dei lettori era allora prevalentemente femminile, le nostre … nonne. Iniziamo dunque con Guido da Verona.
Guido … chi?
Oggi il nome di Guido da Verona non dirà niente a nessuno, tranne a qualche sempre più raro sopravvissuto dei tempi che furono, o a qualche sporadico affezionato dei suoi romanzi, che in tempi recenti sono stati ripubblicati da editori minori.
Eppure cento anni fa questo nome era popolarissimo, in quanto era quello del più noto scrittore del periodo: uno i cui libri andavano letteralmente a ruba, che vendeva centinaia di migliaia di copie a titolo in un’Italia che aveva ancora quasi il 30 per cento di analfabeti, su una popolazione di circa 40 milioni di abitanti. Facendo le dovute proporzioni uno che oggi avrebbe venduto milioni di copie con i suoi romanzi.
Il daveronismo
E non con un titolo o due soltanto, come può sempre capitare a uno scrittore che riesce a fare centro con un libro, ma che poi non sa ripetersi con le altre opere, bensì con una ventina di romanzi. Segno che era riuscito a penetrare in profondità nei gusti dei lettori e a creare una moda, appunto il “daveronismo”, come veniva allora definita. E che moda, se il suo più celebre romanzo,Mimì Bluette, fiore del mio giardino, uscito nel 1916, aveva invaso il paese e circolava in migliaia di copie perfino nelle trincee della guerra e allietava, se così si può dire, la vita dei nostri soldati al fronte, nei terribili momenti di Caporetto. “Quando ci fu bisogno del sogno, io detti il sogno; i soldati portarono nel cuore e nelle baionette Mimì Bluette”, confessò nel 1924 lo stesso narratore.
Un successo fin dagli esordi
Da Verona aveva iniziato nel 1904 con un romanzo, Immortaliamo la vita, che risultò un completo fallimento, tanto che l’autore lo ripudiò, anche se in seguito, quando divenne famoso, fu ristampato a lungo. Il suo secondo tentativo uscì nel 1908, L’amore che torna, pubblicato da Baldini e Castoldi dopo molte insistenze e con la partecipazione dell’autore alle spese di pubblicazione, come capita spesso agli esordienti. Il libro si rivelò subito un grande successo, con oltre 200.000 copie vendute sino al 1943.
Nel 1911 fu la volta di Colei che non si deve amare, l’altro grande best seller di Da Verona insieme a Mimì Bluette, con più di 300.000 copie sino al 1943. Era la consacrazione ufficiale dello scrittore come massimo interprete dell’immaginario degli italiani. Seguirono altri titoli come La vita comincia domani nel 1913, La donna che inventò l’amore nel 1915, Il libro del mio sogno errante nel 1919 e Sciogli la treccia Maria Maddalena nel 1920, con tirature un po’ più basse, ma sempre ai vertici assoluti del mercato.
I modelli dannunziani
Gli anni della guerra e del primo dopoguerra furono il suo periodo d’oro. Ogni titolo incontrava subito le simpatie dei lettori, in maniera così intensa come mai si era visto in precedenza e come per molto tempo non si sarebbe ripetuto. Riusciva a incarnare le più intime e segrete passioni degli italiani e soprattutto delle italiane, in maniera tale che neanche D’Annunzio riusciva a fare meglio.
Pur surclassando i romanzi di D’Annunzio sotto il profilo commerciale, Da Verona doveva moltissimo allo scrittore abruzzese. Egli riusciva, meglio di chiunque altro, a trasferire nei suoi personaggi lo stile di vita e i modelli dannunziani caratterizzandoli a beneficio di un pubblico piccolo borghese.
I best seller del divino Gabriele, a cominciare dal Piacere e dall’Innocente, che furono i suoi maggiori successi, vendevano quattro, cinque volte di meno dei romanzi più popolari di Da Verona. Lo riconobbe bene nel 1918 un grande storico e letterato francese, docente di letteratura comparata, Paul Hazard: “Il suo successo doveva risultare il maggiore di tutti quelli precedenti compresi D’Annunzio e Fogazzaro”.
Eppure se c’era uno scrittore cui riferirsi per capirne la fortuna, questi era proprio D’Annunzio. Da Verona riusciva in sostanza a trasferire i modelli di vita del romanziere abruzzese a un pubblico piccolo borghese, che numericamente era molto, ma molto più ampio di quello dannunziano. Cosa poteva colpire di più la fantasia di un lettore di inizio Novecento? Un Andrea Sperelli, protagonista del Piacere, indaffarato per pagine e pagine a preparare un’atmosfera adeguata e raffinatissima per l’incontro con la vecchia amante, o l’incipit di Mimì Bluette? “Perdette la sua verginità, la prima volta, una sera del mese di aprile, per uno di quei casi accidentali cui si espongon le vergini, le quali sono per natura destinate a non esserlo più. Quel giorno aveva circa diciott’anni; era bella, fresca e si voleva bene… Si voleva tanto bene, che non le bastò la forza per impedire ad un altro di volerle bene insieme con lei.”
I modelli insomma alto borghesi, se non aristocratici, di D’Annunzio venivano volgarizzati, e divenivano in Da Verona più bassi, popolari, adatti ai sogni di sartine e commesse. E l’autore questo lo sapeva bene. Accusato di essere “il D’Annunzio delle dattilografe e delle manicure”, se ne fece un vanto e dedicò loro un libro: Lettera d’amore alle sartine d’Italia, in cui dichiarava esplicitamente ai suoi detrattori, che lo definivano uno scrittore di bassa lega e lo accusavano di non avere alcun valore letterario, di dire pure quello che volevano, tanto lui aveva sempre chi i suoi libri li comprava in centinaia di migliaia di copie. E non solo in Italia, dato che era molto tradotto anche all’estero.
Letteratura di bassa lega?
La contestazione non era banale, ma riproponeva un tema di cui oggi non si parla più, affossati dall’unico valore che prevale nell’editoria, come negli altri settori: il valore economico. Ma allora, e poi per alcuni decenni, la “critica militante” cercava di indicare ai lettori anche il valore artistico di un’opera. Cercava di indirizzarli verso testi e autori di spessore, caso mai prendendo anche qualche abbaglio.
Distingueva quella che era vera letteratura da quella che non lo era, e che veniva definita in vari modi: letteratura di consumo, letteratura d’appendice, paraletteratura e via così. E su questo tema si imbastivano dibattiti e discussioni niente male, che portavano tanti autori di grandi tirature, ad essere definiti di serie B rispetto ai nomi di altri di serie A, che potevano vantare un lignaggio letterario ben più considerevole.
Ma oggi che l’unico criterio valido sembra essere quello delle vendite che uno scrittore riesce a raggiungere, ecco che questo dibattito neanche si pone più, la “critica militante” da qualche tempo è un oggetto sconosciuto, e tanti nomi oggi altisonanti, a partire da quello dell’osannato Camilleri, nessuno si chiede più se appartengano alla categoria degli scrittori di serie A o di serie B; se facciano parte della famiglia di D’Annunzio o di Da Verona.
Verso metà degli anni Venti, le cose per Da Verona cominciano a cambiare. Altri nomi si fanno sotto, ma soprattutto cambiano i gusti dei lettori, ed egli non riesce più né a guidarli, né a rappresentarli al meglio. Le tirature dei suoi libri iniziano a calare. Si passa dalle 300.000 alle 70.000, alle 50.000, infine alle 30.000 copie a titolo. Come dire, niente per uno come lui, anche se molti scrittori ci avrebbero messo la firma a raggiungere quelle cifre.
Lo scrittore continua a condurre la sua vita sfarzosa, sempre elegante e accompagnato da belle donne. Frequenta la libreria Hoepli a Milano, dove lavora Cesarino Branduani, all’epoca commesso, in seguito libraio principe e autore di nostalgiche memorie su quel mondo, prefate addirittura da Indro Montanelli. E si informa di come vada il suo ultimo libro; poi lascia liberi i suoi levrieri che gironzolano per i locali, seguiti da Cesarino, attento che non infastidiscano i clienti. Ma i gusti sono cambiati e colui che per un ventennio li ha interpretati come nessun altro si accorge che aumenta sempre più la zona grigia. Allora cerca di cambiare genere, di conformarsi a tendenze nuove, come traspare dalle sue ultime opere. Ma per uno che si è imposto con uno stile suo e personalissimo, sino a farne una moda assoluta, non è facile, né forse possibile cambiare cliché.
La parodia dei Promessi Sposi
Alla fine degli anni Venti Da Verona torna però di nuovo in auge, per un’impresa editoriale che avrebbe fatto tremare le vene e i polsi a chiunque. Decide di effettuare una parodia dei Promessi sposi. La cosa pare impossibile da ogni punto di vista. Denigrare il nostro massimo romanziere è scandaloso: Don Abbondio che diventa uno speculatore finanziario e va a letto con la Perpetua; Lucia che fuma, parla francese e si concede a tutti fuori che a Renzo; la monaca di Monza che manifesta tendenze lesbiche, solo per fare qualche esempio. Non sono cose tollerabili all’epoca, specie in un periodo in cui il regime cerca di riallacciare buoni rapporti con il Vaticano. Il direttore della casa editrice Unitas presso la quale deve uscire la scandalosa parodia, un giovane Valentino Bompiani, dà addirittura le dimissioni piuttosto che pubblicare l’opera. Ma la proprietà ha deciso che il libro esca, e con la somma che Bompiani riceve come liquidazione apre, con una sola dipendente, una segretaria, la microscopica casa editrice che porterà il suo nome. E che diverrà quello che sappiamo tutti.
Da Verona non si tira indietro e pubblica la dissacrazione del capolavoro manzoniano, che non va nemmeno male, se, nonostante l’opera sia ostacolata in ogni senso dalle istituzioni pubbliche e religiose, riesce a vendere alcune decine di migliaia di copie.
Il colpo di rivoltella del 1939
I tempi d’oro però sono finiti per sempre, e Da Verona dal 1932 non pubblicherà più niente, nonostante le sue opere continuino ancora ad essere ristampate con buon successo. Ma altri sono i nomi che adesso riempiono le vetrine dei librai, da Pitigrilli a Brocchi, da Gotta a D’Ambra, da Corra a Milanesi, solo per citare gli autori “seriali”.
Nel 1939, in piena campagna antisemita, quella che avrebbe provocato innumerevoli drammi, a partire da quello dell’editore Formiggini, per limitarsi al settore editoriale, una notizia rimbalza nell’universo letterario dell’epoca: Guido Da Verona si è suicidato. Ha da poco compiuto i 58 anni. Colpa solo della campagna antisemita imbastita dal regime? Lui che pure era ebreo, ma che nel 1925 aveva aderito al “manifesto degli intellettuali fascisti”? Difficile dirlo. E si può addossare la colpa del tragico gesto solo al calo delle vendite dei suoi libri e al venir meno del favore dei lettori?
Domande lecite, ma alle quali è difficile dare una risposta. Possiamo solo dire che questi elementi un ruolo lo hanno certamente avuto, come pare che anche le sue condizioni di salute non fossero delle migliori, ma forse il colpo di rivoltella con cui Da Verona pone fine alla sua esistenza rimane un gesto che si ammanta ancora di mistero.
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