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Hippy spa, come la controcultura ha contaminato la Silicon Valley

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La controcultura non è più contro

Ci siamo più volte occupati dell’importanza della controcultura nella formazione dei giovani imprenditori e tecnologici che hanno trasformato la fertile striscia di terra tra San Francisco e San José nella Silicon Valley, cioè nel cuore della tecnologia e dell’innovazione mondiale.

Agli inizi degli anni Settanta, mentre la forza della controcultura si attenuava e la guerra del Vietnam volgeva al termine, i suoi protagonisti si interrogavano su come continuare a cambiare il mondo e se stessi, Steve Jobs, che era figlio di quello modo di pensare aveva le idee già chiare.

Pensava di poterlo cambiare attraverso prodotti messi nelle mani di tutti, cioè attraverso un business fondato sull’innovazione, il marketing e lo zen. Un business con una visione rivoluzionaria. C’è quindi una filiazione forte tra controcultura e, diciamo, affari, incarnata proprio dal co-fondatore della Apple. Anche il suo angelico socio, l’altro Steve (Wozniack), era profondamente immerso nella piscina della controcultura. Più che il carattere e la visione, i due Steve erano tenuti insieme da questa comune matrice mentale e culturale.

E così con il passare degli anni è scoppiato l’innamoramento, come nei migliori romance, tra le due visioni rivali, quella degli hippie e quella degli Yuppie. Anche gli aspetti, diciamo, più anticonformisti e dirompenti della controcultura, come l’idea di espandere l’esperienza con le droghe e di prendere consapevolezza di sé con la meditazione prelevata da culture lontane, hanno percolato nel mondo del business e nella stessa corporate America che al tempo degli hippie era dominata dal complesso militare-industriale. Niente di più reazionario e ributtante per i giovani capelloni.

Succede quindi che a mezzo secolo di distanza dall’estate dell’amore, la marijuana è un grande business e la mindfulness è diventata una routine sul posto di lavoro e nelle posizioni alte delle grandi imprese. Nat Segnit, giornalista, autore e commediografo, spiega, sul magazine “The Economist”, il modo in cui la controcultura è penetrata nel cuore del capitalismo. Di seguito proponiamo alcune sue riflessioni interlacciate con le nostre.

L’infiltrazione

La controcultura degli anni Sessanta — i figli dei fiori, le feste dell’amore, le droghe psichedeliche, la meditazione — si è infiltrata nella corporate America. Google, Apple, Facebook, Nike, Procter & Gamble e General Motors offrono tutti programmi di mindfulness, un termine ampio per una serie di pratiche di derivazione orientale pensate per aiutare la concentrazione e sviluppare la consapevolezza di sé.

Il personale della sede centrale di Cisco Systems a San Jose può frequentare il LifeConnections Health Centre, un luogo dedicato allo sviluppo dei “quattro pilastri” del benessere — corpo, mente, spirito e cuore. Il “senior integrated health manager for global benefits” di Cisco, Katelyn Johnson, è responsabile della diffusione dell’ideale dell’“atleta aziendale” —da radicare nel corpo e nella mente dei dipendenti.

Ad Aetna, una gigantesca compagnia di assicurazioni in campo sanitario, più di un quarto della forza lavoro, costituita da 50.000 dipendenti, ha frequentato almeno una delle lezioni interne di mindfulness. Secondo l’azienda, la produttività settimanale di ogni partecipante è aumentata in media di 62 minuti. La ricaduta in valore sull’azienda si aggira intorno ai 3000 dollari per dipendente ogni anno.

Accanto agli uffici open space, ai tavoli da ping-pong e ai codici di abbigliamento informale, la mindfulness sul posto di lavoro è un’idea che ha preso piede nella Silicon Valley e successivamente ha conquistato il mondo intero. Quello che un tempo era appannaggio di centri specializzati di ritiro è oggi mainstream.

La figura cruciale di Steward Brand

Il numero di Luglio/Agosto del 1971 di “Rolling Stone” dedicato a Stuart Brand.

Se si vuole capire come un movimento intento a minare la corporate America sia finito nel suo cuore, un buon punto di partenza è la storia di Stewart Brand. Fotografo ed ex paracadutista dell’esercito, Brand è stato un precursore di tutto quello che sta accadendo.

Electric Kool-Aid Acid Test (pubblicato in italiano da Mondadori) — è il libro di Tom Wolfe del 1968 che documenta il viaggio in autobus attraverso l’America di Ken Kesey (autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo) e dei suoi Merry Pranksters. Brand, parte del gruppo, è descritto nel libro a torso nudo con una collanina di perline indiane sulla pelle nuda e una pettorina bianca da macellaio con sopra le medaglie del Re di Svezia. Piuttosto eccentrico.

Brand è stato una figura chiave per molte cose. In primo luogo è il legante tra la controcultura e il mondo della tecnologia. Il 9 dicembre 1968 a San Francisco, Brand era a fianco di Douglas Engelbart, il fondatore dell’Augmentation Research Center, durante la “madre di tutte le presentazioni”. A questo evento Engelbart parlò del computer come di un “elaboratore di simboli e strumento per aumentare l’intelligenza umana”. Presentò anche, per la prima volta, il mouse, un sistema ipermediale e un sistema per le videoconferenze.

Brand è stato un precursore anche dell’ambientalismo moderno. Negli anni Sessanta promosse una campagna per spingere la NASA a pubblicare e rendere patrimonio pubblico le foto della Terra scattate

dallo spazio. Un atto di grande sensibilizzazione sulla fragilità ambientale del pianeta. Una sensibilità che egli aveva acquisito dai suoi studi sulle popolazioni native dell’America.

The Whole Earth Catalog

La copertina del numero autunnale del “Whole Earth Catalog” ideato da Brand, una sorta di bibbia della sua generazione. Il catalogo in copertina aveva sempre una foto della terra scatta dallo spazio dalle navicelle della NASA.

Brand è stato, infine, una figura chiave del movimento “back to the land”. Il suo rifiuto dell’America dominata dal complesso industriale-militare e la sua lotta per un comunalismo semplice, agrario, non gerarchico, praticato in comunità paritarie sono leggendari. Nel 1968 pubblicò la prima edizione del “Whole Earth Catalog”, una sorta di Google ante litteram, in realtà era magazine-catalogo per corrispondenza senza pubblicità a basso costo.

Nel primo numero c’erano articoli sulla costruzione di case con tensostrutture giapponesi, guide alla coltivazione di funghi e all’apicoltura e schede un po’ su tutto, dai cuscini per la meditazione, ai mocassini in pelle di cervo fino al computer 9100A della Hewlett-Packard.

Ognuna delle 63 pagine del Catalogo era un mosaico di testi, grafici, tabelle, fotografie. Alla base c’era un concetto di fondo: se messa nelle mani giuste e praticata nel modo corretto, la tecnologia poteva liberare sull’umanità dal bisogno. Nel 2005 Steve Jobs, che venerava Brand, parlando alle matricole di Stanford, descrisse il catalogo come “una delle Bibbie della mia generazione”.

L’Homebrew Computer Club

Gli uffici di Whole Earth erano a Menlo Park, dove si riuniva anche l’Homebrew Computer Club, un gruppo di giovani appassionati dell’elettronica casalinga. I fondatori del club hanno riconosciuto nel “Whole Earth Catalog” l’ispiratore del loro spirito hacker nonché della pratica di libero scambio di idee, informazioni ed esperienze.

Fu proprio in una riunione dell’Homebrew nel 1976 che il timido e impacciato Steve Wozniak si sentì abbastanza audace da svelare il suo prototipo di computer Apple I. Il club era un forum aperto, una piccola tecno-utopia che condivideva con i coetanei della cultura hippie una fede egualitaria nelle condivisione e nell’accessibilità. Liberi da ogni burocrazia o gerarchia, i capelloni libertari di Menlo Park potevano inseguire i loro sogni e le loro utopie di cambiamento.

In realtà la parentela tra la controcultura e la cultura aziendale contemporanea è meno strampalata di quanto appaia a prima vista. L’ideale comunitario di Stewart Brand e dei suoi collaboratori ha portato direttamente all’informalità e all’assottigliamento delle gerarchie che caratterizza il modo in cui la Silicon Valley — e molte grandi corporation — sono organizzate.

La straordinaria location dell’Istituto Elsen a Big Sur, California, sulla Strada Nazionale 1 della California, la litoranea che collega San Francisco a Los Angeles. L’istituto è stata la culla del Movimento del potenziale umano (Human Potential Movement), un movimento che si prefiggeva di potenziare la personalità, la consapevolezza di sé e l’autorealizzazione a prescindere dalle religioni, dalle quale però derivava delle pratiche.

Il ritiro di Easlen

In ogni caso, la controcultura è sempre stata un fenomeno della classe media. Abraham Maslow nella sua teoria della gerarchia dei bisogni ha suggerito che l’autorealizzazione sia possibile solo quando siano stati soddisfatti alcuni requisiti fondamentali come “cibo, acqua, calore e riposo”.

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Di conseguenza, furono i giovani, bianchi, laureati e avvantaggiati dal boom economico del dopoguerra, ad avere il tempo libero per abbandonarsi alla psichedelia e all’arte dell’anima tipici della controcultura. E questi giovani avevano i loro luoghi dove trovarsi.

A proposito di questi luoghi, Wolfe scrive in Acid Test:

«I posti preferiti dagli psichedelici, come l’Istituto e centro di ritiro Esalen in California — che compare anche nel finale di Mad Man –, erano luoghi dove gli adulti della classe media più colta si ritiravano in estate cercando di sfuggire alla routine e di muovere un po’ il loro basso ventre».

La meditazione fa parte del programma di Esalen fin dalle origini. Quando, negli anni Cinquanta, Dick Price, uno dei co-fondatori, iniziò a familiarizzarsi con la vipassana — un’antica tecnica di meditazione buddista che aiuta a vedere le cose in profondità e a prendere consapevolezza di sé e del qui e ora — era ancora in servizio nell’aeronautica militare americana.

La vipassana è, in effetti, la forma di pratica spirituale che ha fornito i fondamenti alla moderna mindfulness.

Il movimento vipassana

Nel frattempo, sulla costa orientale, altri alternativi sviluppavano le conoscenze delle pratiche buddiste che avevano acquisito viaggiando in Birmania, India e Thailandia. La applicarono nelle loro attività dando vita quello che divenne noto come “movimento vipassana”.

Il movimento nasceva dallo sforzo di adattare la pratica buddista tradizionale ai gusti e alla mentalità degli americani. Lo sforzo era quello di ridurre al minimo le componenti della pratica più esplicitamente devozionali, come il canto della suttas, per far emergere come preponderante l’elemento meditativo.

Il biologo Jon Kabat-Zinn si spinse oltre. Nel 1965, mentre svolgeva il dottorato in biologia molecolare al MIT, Kabat-Zinn partecipò a una conferenza sulla meditazione tenuta da un insegnante, di origine americana, di buddismo zen.

Nel corso del decennio successivo, questi insegnamenti lo incuriosirono sempre più. Iniziava a porsi domande di questo tipo: «

Se la meditazione porta una maggiore consapevolezza del proprio corpo e della propria mente, che effetto potrebbe avere su condizioni apparentemente incurabili come il dolore cronico e la depressione?».

La nascita del Mindfulness-Based Stress Reduction

La sfida di Kabat-Zinn era quella di creare un ponte tra le due culture. Negli ambienti accademici in cui operava, proporre risposte religiose ai problemi medici avrebbe solo sollevato sarcasmo e irritazione. La sua soluzione fu dunque semplice e conseguente: rimosse del tutto la parte religiosa dalla pratica.

Nel 1979 presentò una tecnica di riduzione dello stress basato sulla consapevolezza, o MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction), che combinava elementi di hatha yoga con la meditazione buddista della consapevolezza, ma li evirava delle loro bardatura spirituale.

È stato un passo decisivo nella normalizzazione di queste pratiche esoteriche. Alleviata dal suo bagaglio religioso, la mindfulness divenne un argomento adatto allo studio scientifico. Da allora, centinaia di studi indipendenti hanno dimostrato l’efficacia della MBSR e delle tecniche correlate nel

ridurre i livelli dell’elaborazione visivo-spaziale. È anche decisiva nel ridurre il peso dei pensieri vaganti che possono determinare la depressione e la scarsa concentrazione.

Il Nirvana poteva aspettare: la mindfulness era ormai accademicamente rispettabile, era diventata una sorta di panacea del materialista. Il MBSR e i relativi approcci terapeutici sono oggi offerti nei sistemi sanitari di tutto il mondo.

Nel 2004 il National Institute for Clinical Excellence della Gran Bretagna, l’ente che fornisce una guida su tutti i nuovi farmaci e trattamenti del Servizio Sanitario Nazionale, ha approvato la terapia cognitiva basata sulla mindfulness come trattamento per le persone a rischio di ricaduta depressiva.

Le corporation scoprono la mindfulness

Non passò molto tempo, prima che le grandi aziende cominciassero a vedere il valore della mindfulness nella sua reale portata. Nel 2007 Chade-Meng Tan, ingegnere del software e dipendente #107 di Google, ha co-fondò “Search Inside Yourself”, un programma di formazione sulla mindfulness, progettato per aiutare i colleghi, i googler, a migliorare la loro attenzione e ad affrontare lo stress legato al lavoro.

Nell’arco di due giorni e mezzo, o di sette settimane meno intense, i dipendenti venivano formati all’attenzione, alla consapevolezza di sé e all’empatia, utilizzando tecniche derivate dalla mindfulness e dalla psicologia organizzativa. Ne è nato un corso intensivo di intelligenza emotiva destinata a una forza lavoro composta di tecnologi e ingegneri che in genere è incline all’imbarazzo sociale e all’esaurimento nervoso.

Da allora il programma è stato trasformato in un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro, il Search Inside Yourself Leadership Institute. L’istituto promuove la mindfulness nelle aziende e in altre organizzazioni no-profit di tutto il mondo.

Carolina Lasso è direttore del marketing presso gli uffici del SIYLI a San Francisco. Per lei, la mindfulness ha un significato preciso. Non è tanto un mezzo per evadere da un ambiente di lavoro pressurizzato, quanto un supporto a starvi in modo più efficace.

«La mindfulness serve come base per sviluppare altre competenze: l’intelligenza emotiva, la leadership compassionevole e tante altre cose».

Chi avvantaggia la mindfulness aziendale?

La ragione dell’interesse delle imprese per la mindfulness è abbastanza chiaro. La pratica alla mindfulness offre un modo relativamente economico per ridurre lo stress e l’ansia sul posto di lavoro, incrementando la fiducia e l’attaccamento del personale all’organizzazione, come pure la produttività.

I critici di questo approccio obietterebbero che il vantaggio della mindfulness risiede nel suo lavoro di acquietamento dell’interiorità delle persone. Un lavoro che mantiene i dipendenti tranquilli e più inclini ad accettare le spesso irragionevoli richieste di tempo ed energia da dedicare al lavoro stesso.

In entrambi i casi la pratica si è diffusa, prima nel settore tecnologico e poi in altri rami. Uno studio condotto nel 2017 dal National Business Group on Health, un’organizzazione no-profit di Washington DC, ha scoperto che un terzo di tutte le aziende americane offre corsi di mindfulness o di formazione, e che un altro quarto sta valutando l’opportunità di introdurli.

Katelyn Johnson di Cisco precisa:

«La Silicon Valley è un ambiente ricco di opportunità, ma intenso. È estremamente frenetico. C’è bisogno di ausili come la meditazione per aiutarci a sopravvivere. Ma non solo per questo. Se non si riescono a dispiegare appieno le proprie potenzialità, è piuttosto difficile riuscire a innovare, a ideare e continuare a muoversi alla cadenza richiesta».

La grande sfida di Cisco, dice, è:

«Esserci. Enormi sono le distrazioni, gli aggiornamenti, le e-mail, gli iMessagge — gli input di sovraccarico attenzionale che ogni giorno impattano il proprio lavoro. La mindfulness elimina il disordine e costringe a confrontarsi con il qui e ora, a esserci».

La questione delle droghe

Alla fine degli anni Sessanta il consumo di droga tra gli hippie e in luoghi di ritiro come Esalen era così intenso che iniziò a circolare, anche tra gli stessi hippie, la preoccupazione di perdere il controllo. La psichedelia e la pratica spirituale hanno una lunga storia comune. Il primo catalogo di attività di Esalen, pubblicato nel settembre 1962, includeva un workshop sulla mistica indotta dalla droga.

Dick Price, uno dei fondatori, era un fan degli acidi e un sostenitore del loro uso nel percorso di esperienza mistica. Il problema è esploso con l’arrivo di massa degli hippie nella cosiddetta estate dell’amore nel 1967. Marijuana, mescalina e LSD venivano assunti in grandi quantità e senza alcuna supervisione terapeutica.

Oggi l’istituto è un luogo più tranquillo. La psichedelia, intesa come tecnica di dilatazione della percezione, ha un’altra rispettabilità; all’inizio del 2019 Esalen ha ospitato un workshop sulla psichedelia come fattore di espansione della coscienza e di cambiamento personale e sociale.

Molti dei partecipanti a questo workshop sono microconsumatori a lungo termine di LSD, psilocibina e cannabis. La politica ufficiale dell’istituto in materia di droga è chiara. Le droghe illegali sono severamente proibite. E infatti nell’istituto non vengono usate e non si trovano.

L’apertura alle droghe

Questo atteggiamento di apertura verso certe sostanze allucinogene è parte di una tendenza più ampia. La California ha legalizzato l’uso ricreativo della cannabis nel novembre 2016; le vendite su licenza sono iniziate nel gennaio 2018.

L’ingresso dell’erba nel mercato legale ha causato un cambiamento nella cultura della droga, almeno per quanto riguarda gli allucinogeni che (di solito) non danno dipendenza, come LSD e cannabis: dalla ribellione alla responsabilità, dallo spaccio in strada alla distribuzione nei dispensari e alla commercializzazione nei negozi specializzati nella vendita di cannabis.

Mel quartiere di Castro a San Francisco, un tempo centro della comunità gay radicale, è in attività il flagship store dell’Apothecarium, una catena di quattro negozi di cannabis di lusso. L’estetica è quella di un Apple Store: open space sobrio, grigi e blu come colori dominanti, teche di esposizione in damasco bianco e nero, bong di vetro come oggetti di design e una “biblioteca della cannabis”. Questi nuovi punti vendita per uno impiego particolare del tempo libero sono in forte competizione per superarsi nell’allettare la clientela.

Un mercato da 90 miliardi

Quindici isolati a est dell’Apothecarium, nel Mission District, ci sono gli uffici anticonformisti di Pax Lab, dove “lo spazio della cannabis”, secondo l’amministratore delegato Bharat Vasan, converge con la tecnologia mobile.

Il prodotto di punta di Pax è Era, un’elegante e leggerissima penna a sfera progettata per usarla con cialde staccabili di concentrato di cannabis. Si tratta dell’equivalente di una macchina Nespresso. L’app che accompagna il dispositivo consente di controllare dal proprio smartphone il dosaggio e la temperatura di vaporizzazione.

“La temperatura conta molto nel nostro spazio”, spiega Vasan, che ha venduto la sua precedente startup, una società di fitness-wearables chiamata Basis, a Intel per 100 milioni di dollari. Spiega meglio:

«Concentra la volatilità a diverse temperature. È proprio come con il vino: il bicchiere conta davvero. Temperature diverse danno sensazioni diverse».

Il suo obiettivo è creare una “esperienza super-lucida” in tono con quella di Apple o Tesla, per acquisire una fetta di un mercato che Vasan stima intorno ai 90 miliardi di dollari “nei prossimi cinque anni”. In definitiva, dice, la missione del Pax Lab è:

«Affermare la cannabis come una forza del bene». Anche questo concetto è un lascito della controcultura e dei suoi protagonisti: gli hippie, o meglio gli Hippie Spa.

Categories: Economia e Imprese