I popoli che hanno bisogno di eroi, si sa, non sono fortunati. Alla regola non sfuggono neppure gli indiani, che in queste settimane hanno trovato un nuovo simbolo del bene contro il male in Anna Hazare, un 74enne attivista politico di ispirazione gandhiana che dallo scorso aprile protesta contro la corruzione dilagante nel paese facendo lo sciopero della fame.
Al centro della disputa con il governo c’è la sua richiesta di approvare, in toto, una legge che dovrebbe curare il cancro più grave da cui è affetto il paese: ovvero il vorticoso girare di mazzette grandi e piccole che governano la vita pubblica indiana, dall’assegnazione di licenze telefoniche del valore di miliardi di dollari a quella delle ration card che dovrebbero essere fornite gratuitamente ai più bisognosi per poter comprare farina e lenticchie.
Ma l’esecutivo non è intenzionato ad accettare disegni di legge chiavi in mano e ha posto una serie di condizioni alle manifestazioni organizzate da Hazare. Che a sua volta non ci sta a organizzare proteste su misura per il governo ed è finito in prigione. Il risultato? Arresti, frustrazione, paralisi. In una parola: stallo.
Ed è un peccato. Perché in India oggi forse non c’è dibattito più attuale di quello sulla corruzione. Il prezzo pagato dal paese è altissimo, non solo in termini di crescita economica, ma anche di vite umane. Di mazzette, pagate e non, in India si muore: per fame, per malattia e per i danni arrecati alla società dalla cattiva politica che dal denaro sporco trae la propria linfa vitale.
Ed è un peccato anche perché, se anche avesse la fortuna di vivere altri 100 anni, ad Hazare non capiterebbe mai più di poter trattare con un primo ministro più pulito di Manmohan Singh, un economista di vaglia ripetutamente prestato alle istituzioni, ma completamente privo di tutto quel bagaglio di malizie indispensabili a navigare le acque limacciose della politica indiana.
Perché allora i due non s’intendono? In parte per colpa di Hazare e in parte per colpa di Singh.
Hazare non è disposto a diluire la sua proposta di legge, infischiandosene del fatto che se fosse messa in pratica alla lettera creerebbe un mostro istituzionale. Una democrazia – e non una qualunque, ma la più grande del pianeta – messa alla mercè di un organismo anti-corruzione fatto sì da persone per bene, ma pressoché onnipotente, capace di calpestare le prerogative di qualunque altro organo istituzionale, Corte suprema inclusa.
Singh, per quanto personalmente pulito, dopo 7 anni di premierato passati a immolarsi sull’altare della coalition politics ha le polveri bagnate. Per mandare lentamente avanti il paese sulla strada delle riforme ha dovuto sedersi a tavola con un numero esorbitante di ministri e leader politici con i quali nella vita privata si guarderebbe bene dal condividere anche solo un marciapiede.
Non è difficile immaginare che il massimalismo idealista, ingenuo e in ultima analisi potenzialmente pericoloso di Hazare male si accordi con la real politik di chi da anni si misura a passi minuti con la nauseabonda politica del compromesso necessaria a governare un paese complesso come l’India.
Ma proprio per questo, pur conoscendo il nanismo morale di buona parte della classe politica indiana, è difficile parteggiare apertamente per i manifestanti. Non importa quanto buone siano le loro intenzioni e quanto alti i loro ideali (e le prime sono ottime e i secondi non potrebbero essere più nobili). Il loro tentativo di bypassare le tortuose strade attraverso cui cresce e prende forma una democrazia è irto di pericoli che, in una stagione di rifiuto per la politica e le sue tante devianze, sono difficili da vedere, ma ci sono.
La straordinaria battaglia condotta da Hazare fino a oggi è stata istituzionalmente spericolata, ma moralmente giusta. Ora la cosa migliore da fare è prendere lo straordinario bagaglio di autorevolezza e popolarità accumulato in questi mesi e metterlo al servizio di un processo – lento forse, certamente imperfetto, ma non ricattatorio – di crescita della società indiana.