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Harris o Trump, le elezioni americane si giocheranno su un pugno di voti ma per l’Europa la musica cambierà

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Il giudizio più realistico che si può esprimere sulla campagna presidenziale americana, per fortuna piuttosto condiviso, dice: impossibile fare previsioni serie, almeno a fine agosto, perché, date le caratteristiche tecniche del voto, il risultato nazionale sarà determinato dal risultato locale in una trentina e forse meno contee di cinque o sei Stati, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin in testa. Inoltre, se i risultati del 2016 e del 2020 insegnano qualcosa, il vincitore strapperà la Casa Bianca grazie a 100mila, o meno, voti in più del rivale; il tutto deciso quindi da meno dell’1% delle oltre 3mila contee e da meno dello 0,05% dei circa 150 milioni di elettori. Quindi, la Casa Bianca potrebbe andare sia a Donald Trump che a Kamala Harris, e per un soffio. Poi, lo scarto potrebbe anche essere più consistente, ma difficilmente grande.

A questi 5mila voti qua, 8 mila voti là sono appesi anche vitali interessi europei, per scelta di donne e uomini che votano pensando ovviamente agli Stati Uniti e non certo all’Europa, dove la maggior parte di loro non è mai stata, e di cui sa ben poco. Su questi nostri vitali interessi non c’è molta chiarezza neppure nell’opinione pubblica europea, ammesso questa esista aldilà delle singole tenacissime e numerosissime realtà nazionali, forza, vanto, e insieme debolezza dell’Europa. E ugualmente non abbiamo sufficiente coscienza del fatto che questa Europa è figlia delle due guerre suicide del 900, della seconda in particolare, dalle cui conseguenze disastrose non fu per nulla semplice salvarsi, e sarebbe stato molto difficile farlo senza gli Stati Uniti, che alla fine – non con Franklin Roosevelt, ma con Harry Truman – decisero essere la rinascita europea nel proprio preciso interesse. Accadeva quasi 80 anni fa, ma il passato passa a modo suo, e non sempre passa davvero.

Il complesso sistema elettorale americano

Le technicalities: negli Stati Uniti gli elettori scelgono il presidente non direttamente, ma affidando la loro scelta, che ovviamente va rispettata, a un totale oggi di 538 “grandi elettori” nominati Stato per Stato, in genere personaggi della politica locale ma non solo, e pari al numero dei deputati federali eletti nello Stato più i due Senatori. La California, il più popoloso, ha quindi 54+2 grandi elettori, i semivuoti Wyoming e i due Dakota ne hanno 3 a testa. Alla fine, le presidenziali americane sono la somma di 50 voti Stato per Stato, molto più che non un grande voto nazionale. Tutti gli Stati, salvo Maine e Nebraska che assegnano i voti diversamente, rispettano una regola: chi ha più voti popolari nello Stato prende tutti i voti dei “grandi elettori”. Il tentativo di Trump di ribaltare il voto del 2020 puntava a far sì che, invocando brogli elettorali, mai dimostrati nonostante indagini immediate e poi oltre 60 cause legali, i “grandi elettori” repubblicani almeno in parte si dissociassero impedendo a Joe Biden di raggiungere i 270 voti necessari per la vittoria. A quel punto sarebbe stata la Camera a decidere, con un voto per ciascuno Stato espresso a maggioranza dalla delegazione parlamentare di ciascun Stato. E poiché i repubblicani avrebbero salvo crisi di coscienza vinto questa partita, Trump aveva buone possibilità di diventare presidente pur avendo perso le elezioni. Ma era un tentativo di colpo di stato, fallito anche perché il vicepresidente Mike Pence si oppose, in particolare il 6 gennaio del 2020, il giorno dell’assalto al Congresso.

Immunità presidenziale: una questione delicata

La Corte Suprema ha decretato sorprendentemente due mesi fa che si trattò di una scelta presidenziale a pieno titolo, quindi legata a interessi nazionali, e che su questa il presidente in carica, allora Trump ancora per pochi giorni, godeva della piena immunità. È stata una sentenza strabiliante, che conferma la grave decadenza morale della massima magistratura americana, mai scesa così in basso nell’ultimo secolo, e deve far riflettere gli alleati di Washington sulla perduta affidabilità del sistema politico–giudiziario americano, con Trump soprattutto.

Un aspetto positivo comunque c’è: l’esteso e mai finora articolato concetto di immunità sulle scelte presidenziali, anche se tagliato sfacciatamente ad personam sulle necessità di Trump, vale ovviamente anche per Joe Biden, che sarà presidente fino al 20 gennaio. Ora, il trumpismo ha lavorato intensamente negli ultimi due anni per sistemare nelle commissioni elettorali dei vari Stati persone di totale fede MAGA, make America great again, per prepararsi meglio anche nel 2024-2025 al citato trucco dei 270 voti elettorali da far mancare al rivale, se necessario, e far decidere così il presidente dalla Camera dei deputati. Ma a quel punto Biden, ancora con i pieni poteri fino a gennaio 2025 inoltrato, totalmente protetto dalla nuova immunità pro-Trump che salva anche lui da ogni successiva ritorsione, potrebbe usare tutti gli strumenti che la legge gli affida a fronte di un tentativo sovversivo. Sarebbe quasi divertente. 

Ma lasciando agli americani la loro partita, di cui siamo solo spettatori lontani, occupiamoci della nostra, dell’Europa.

La Nato e il ruolo degli Usa

L’Alleanza Atlantica e la Nato, il suo braccio militare, hanno dimostrato dopo l’attacco di Vladimir Putin all’Ucraina, due anni e mezzo fa, una sorprendente vitalità. Il fatto più eclatante, oltre alla risposta con gli aiuti a Kiev, è stato l’ingresso della Svezia, più significativo ancora di quello della Finlandia, perché Stoccolma abbandonava così due secoli di totale neutralità. Ma non ci si può illudere troppo. L’alleanza che garantisce la difesa europea da una Russia nuovamente espansionista, e che teorizza con l’aiuto ideologico del patriarcato di Mosca il suo diritto a intromettersi negli affari europei, avrà presto 80 anni, dipende in modo cruciale da un Paese alleato che si trova a 6 mila chilometri dalle nostre coste, è considerata anche per questo dai russi un fatto innaturale oltre che un tradimento delle promesse fatte da Franklin D. Roosevelt a Stalin ai vertici di Teheran e di Yalta, e non resterà a lungo così come è oggi. Non è affatto chiaro che l’opinione pubblica americana, a fronte della necessità di applicare l’articolo 5 del trattato Nato (l’attacco a un Paese da intendere come l’attacco a tutti), sia favorevole all’invio di una divisione per difendere Lituania o Estonia, o altro. Sarebbe già qualcosa se si potesse contare, nell’occasione, nell’intervento aereo americano. Per le truppe di terra la risposta potrebbe anche essere, soprattutto su spinta repubblicana, che si tratta di un affare europeo. I trattati, soprattutto invecchiando, rischiano spesso questa fine. Resta poi la questione nucleare: fino a che punto in caso di forte minaccia missilistica russa sarebbe credibile l’ombrello Nato, che è americano? Sono più di 50 anni che ogni tanto l’Europa si interroga su questo.

Un fatto certo è che, chiunque vinca fra due mesi, il contributo europeo ai costi Nato dovrà notevolmente salire, e oltre il 2% del Pil. La spesa militare è la più inutile delle spese, fuorché quando si è costretti a difendersi. Con Trump il futuro della Nato rischia di essere all’insegna del caos, con minacce di uscita degli Usa dalla struttura militare, senza un chiaro disegno politico-strategico e con un costante utilizzo propagandistico a fini interni, per scaldare il cuore alla forte componente antieuropea del trumpismo, il tutto con sullo sfondo gli applausi di Mosca. Con Kamala Harris l’appello, ormai ripetuto da oltre 30 anni anche da molti democratici, a una maggiore e soprattutto una migliore spesa europea per la Nato, si farà pressante, ma il tutto in un quadro diverso, più collaborativo e lungimirante. L’Europa spende molto per la difesa, ma spende male, con i bilanci nazionali che spesso trarrebbero enormi risparmi da una gestione comune dei vari programmi e sistemi d’arma. Purtroppo un freno frequente alla razionalizzazione viene dagli stessi comandi militari, restii a cedere potere, dai Parlamenti, e a volte dalla stessa industria della Difesa, che teme una collaborazione forzata.

Democratici vs Repubblicani: un’Europa a due velocità

In campo democratico domina tuttavia l’idea che uno stretto rapporto con l’Europa è vitale per gli interessi americani, anche a fronte della questione cinese, perché sarebbe suicida abbandonare l’Europa per concentrarsi su uno sbarramento anti-Pechino perdendo così numerosi alleati di peso. Gli strettissimi rapporti economici, commerciali e di investimenti incrociati fra le due sponde dell’oceano fanno poi del mondo transatlantico un unicum nel panorama mondiale, e i democratici resteranno, grossomodo, fedeli a questa realtà, se gli europei si daranno una mossa. 

Fra i repubblicani non è così. E non tutto è attribuibile alle uscite demagogiche del trumpismo, che cavalca gli istinti atavici isolazionisti, presenti nella pancia del Paese da almeno un secolo e mezzo; Andrew Jackson, presidente dal 1829 al 1837, era di questa scuola, e un suo grande ritratto dominava l’ufficio di Trump alla Casa Bianca. Già prima di Trump fra gli isolazionisti di destra si sosteneva l’inutilità della Nato per gli interessi americani, e dopo la fine dell’Urss la tesi si è rafforzata. Due accademici di peso del Cato Institute, la think tank libertaria (antiburocratica e nazionalista) fondata nel 1977 e finanziata dalla famiglia Koch, grande contribuente alle cause della destra americana, offrono un quadro esemplare del sentire trumpiano filtrato e rimodellato dal Cato Institute. In un saggio intitolato Post-American Europe, Justin Logan e Joshua Shifrinson scrivono adesso su Foreign Affairs che “se dopo due anni di combattimenti la Russia non è riuscita a piegare economicamente e militarmente l’Ucraina vuol dire che non rappresenta una minaccia egemonica per l’Europa”. Dopo questo frettoloso giudizio, che prescinde totalmente dal ricatto nucleare, continuano affermando che ormai il principio ispiratore della politica europea di Washington, non avere sul continente europeo un nemico in posizione egemone, non ha più motivo di essere, perché questa minaccia egemonica non esiste più. “Per la prima volta dopo secoli –affermano con sicurezza- l’Europa non ha più una nazione potenzialmente egemone. La Russia –aggiungono- rappresenta solo l’ombra di quella che fu la minaccia sovietica”. Visto da Varsavia, Vilnius, Helsinki, Stoccolma, Berlino, e anche da Roma se vogliamo, il quadro non è esattamente questo.

L’ipotesi di un disimpegno americano in Europa

Più articolato, ma sostanzialmente simile, lo sguardo di Elbridge Colby, nel 2017-2018 al Pentagono come responsabile della strategia, nipote di William Colby capo della Cia negli anni di Richard Nixon e di Gerald Ford, e probabile braccio destro di Trump alla Casa Bianca per la sicurezza nazionale, in caso di rielezione. La Cina è il problema, dice Colby, e lì vanno concentrate tutte le energie. Distogliere forze dal teatro asiatico per impegni in Europa, che non va abbandonata ma “europeizzata”, sarebbe come invitare la Cina ad attaccare a Taiwan, sostiene Colby, a cui avviso gli Stati Uniti possono benissimo fare a meno dell’Ucraina. Con quest’ultimo giudizio, in particolare, Colby è diventato una presenza costante nella propaganda di Mosca. La sua tesi, basata sull’impossibilità per Washington di assicurare contemporaneamente gli equilibri in Asia e in Europa, è musica per il Cremlino. Sulla Moscova si è sempre pensato che da sole le nazioni europee, da mantenere rigorosamente divise dicevano i piani strategici sovietici del 1944-45, non avrebbero mai potuto resistere alla sfera di influenza russa, e dal 1947-1949, dopo la sorpresa del ritorno americano con il Piano Marshall, l’obiettivo di Mosca è sempre stato quello di allentare e sciogliere i legami fra le due sponde dell’Atlantico. Fatto questo, si tratterebbe di svuotare la Ue, che per Mosca è sempre un altro prodotto della Guerra Fredda e una minaccia per la Madre Russia. A quel punto, divide et impera.

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