L’agricoltura italiana ha un futuro 4.0, sarà nel digitale e nella capacità d’innovazione dell’impresa la vera sfida dei prossimi anni. Quanto alle grandi aggregazioni, come quella annunciata nei giorni scorsi da Bayer e Monsanto, “non vanno demonizzate, ne dobbiamo prendere atto e le istituzioni devono vigilare per correggere le eventuali storture: per esempio, in materia di concorrenza, con una gestione accorta della durata dei brevetti”. E’ un’immagine di agricoltura in profondo cambiamento quella che Mario Guidi, 55 anni e presidente di Confagricoltura dal marzo 2011, disegna in questa intervista a FIRSTonline. “Anche l’agricoltura come le altre attività d’impresa – afferma – deve evolversi e aggiornarsi guardando alla qualità. L’innovazione non è in conflitto con la tradizione”. E’ l’innovazione infatti ad attirare i giovani e a spingere il ritorno di interesse verso i campi e soprattutto verso l’agroalimentare più innovativo, come certificano le statistiche. Mancano però strumenti adeguati, afferma Guidi, a sostenere il salto di qualità verso un’attività più imprenditoriale e chiede al governo di inserire la nuova “agricoltura di precisione” all’interno dei meccanismi di sostegno per le imprese messi a punto dal Ministero dello Sviluppo.
L’industria fatica a decollare, l’agricoltura cresce: sono gli ultimi dati Istat di agosto a certificarlo. Il settore spinge la ripresa?
“L’Istat dà numeri veri che vanno saputi leggere. Sono la somma tra realtà positive e molto dinamiche e altre che purtroppo faticano ad adattarsi al cambiamento e che non stiamo sostenendo con strumenti adeguati. Agricoltura vuol dire tante cose: alimentazione, agriturismo, produzione di energia, trasformazione dei prodotti. E’ senz’altro il settore che ha maggiori opportunità di crescita. Tutto il mondo vuole mangiare italiano eppure alcune aziende sono al collasso”.
Come si spiega?
“Non sono state create le normative per gestire le nuove sfide e ora siamo ad un bivio: dobbiamo spingere sulle aggregazioni e metterci in gioco come imprenditori con un salto di qualità. Molti di noi già lo fanno, altri vanno accompagnati verso la trasformazione e per questo serve un diverso approccio della politica”.
I giovani sono sempre più attratti dall’agricoltura.
“L’agricoltura in Italia contribuisce per circa il 3% al Pil ma se consideriamo tutte le attività che le ruotano intorno, dal packaging ai trasporti, dalla trasformazione al commercio, l’agroalimentare incide per il 17%. E i giovani tornano perché il sistema si sta evolvendo in una direzione positiva: conoscenza dei mercati, innovazione, Internet. E’ l’evoluzione digitale che attira i giovani. Il nostro futuro sarà proprio nella capacità di conquistare quote di valore aggiunto che finora abbiamo lasciato ad altri”.
In questo salto di qualità verso un’agricoltura più imprenditoriale, si aprono i nuovi orizzonti legati alle integrazioni tra fornitori di dati – sull’acqua, le sementi, i fertilizzanti, il ciclo di irrigazione – e le digital company come Microsoft che non a caso ha fatto un accordo con Monsanto. L’agricoltura italiana ne è già investita? Come si sta muovendo il settore?
“L’agricoltura è il settore che più si avvantaggerà della diffusione della banda larga e ultralarga su tutto il territorio nazionale, che invece oggi è insufficiente, perché Internet è importante proprio per chi, come le aziende agricole, è decentrato rispetto alle grandi città. Il digitale consente di ottenere previsioni meteo più accurate, accedere a piattaforme e-commerce, fare trattamenti mirati. Le stesse macchine, come i trattori, ora sono digitali. Mi chiedo allora perché anziché promuovere leggi per ridurre l’uso dei fertilizzanti, non se ne fanno per aiutare gli agricoltori ad acquisire le tecnologie più avanzate che consentono un uso più selettivo dei prodotti, risparmi sui costi e una produzione più performante. L’agricoltura di precisione è il nostro futuro ma l’Italia è indietro. Francia e Spagna, che hanno produzioni simili alle nostre, sono molto più avanti di noi. Per questo ci aspettiamo delle novità nella Legge di Stabilità che il governo sta preparando”.
Bayer e Monsanto hanno annunciato l’integrazione delle attività nell’agrochimica. Nasce un nuovo colosso, altri sono in pole position come l’annunciata unione Chemcina- Syngenta. Secondo lei, in questo settore strategico per il pianeta, sono fondate le preoccupazioni sui rischi di monopolio delle sementi? O invece il consolidamento favorisce lo sviluppo delle biotecnologie e rappresenta un’opportunità di crescita per l’agricoltura?
“Penso si debbano ringraziare le multinazionali per le evoluzioni realizzate nella genetica che hanno permesso di migliorare, aumentandola, la capacità produttiva. Facciamo un esempio pratico: nella provincia di Ferrara negli anni ‘50-’60 mio nonno riusciva a produrre 1,5 tonnellate di mais per ettaro; oggi arriviamo a 7-8 tonnellate l’ettaro. L’agricoltura italiana ed europea è cresciuta insieme alle multinazionali e già da molto tempo dipendiamo da loro per le sementi. Aggiungo che nel mondo non esiste un solo chicco di mais che non sia brevettato. E non parlo di Ogm”.
Ci sono dunque degli aspetti positivi: le grandi società si uniscono per mettere assieme conoscenze sulla genetica, background di dati e ottenere migliori risultati. Lo sforzo di ricerca è notevole e l’Italia , lo sappiamo, investe poco in ricerca e ancor di meno nella ricerca agricola. Il risultato è che i semi ibridi prodotti dalle multinazionali sono di qualità certificata e sono più performanti. Quelli che si potrebbero produrre in una piccola azienda, non ibridi, sono soggetti ad invecchiamento, col tempo. Ciò vale soprattutto per mais, soia e cotone; un po’ meno per grano e riso”.
E gli aspetti negativi? Non ci sono rischi di monopolio?
“Al momento non posso rilevare posizioni dominanti sui prezzi. Tuttavia, al ridursi del numero dei produttori il tema va tenuto sotto osservazione, non solo dal punto di vista agricolo. Così come nella farmaceutica dopo un certo numero di anni scadono i brevetti sulle molecole e possono essere commercializzati da altri, così pure nelle sementi servirà una gestione accorta sulla durata dei brevetti per evitare cartelli”.
Il fenomeno delle integrazioni può entrare in conflitto con la qualità del cibo made in Italy che tutti ci invidiano?
“E’ possibile, ma solo se saremo noi a volerlo: lei mi chiede se un pomodoro San Marzano o un riso Carnaroli potranno essere soppiantati da nuove sementi meno gustose ma più performanti. Se ce le offrono potremmo essere tentati di acquistarle ma poi chi vorrebbe comprare i nostri prodotti? Il nuovo riso Carnak è del tutto simile allo storico Carnaroli, si ammala di meno quindi se ne produce di più ed è apprezzato dal consumatore. E’ un bene o un male? Cosa ci interessa: un riso buono e una produzione agricola sostenibile o un prodotto che l’agricoltore non riesce più a produrre perché la quantità per ettaro decresce costantemente? L’agricoltura deve evolversi, lo abbiamo imparato proprio dai nostri padri”.