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Guerra e pace: il 2025 sarà l’anno della svolta? “Molto dipenderà dall’imprevedibilità di Trump”: intervista a Stefano Silvestri (Iai)

Imagoeconomica

Il 2025 sarà l’anno delle paci? Più di un analista si è avventurato sul terreno delle ipotesi, immaginando che gli oltre 1.000 giorni di guerra in Ucraina e i quasi 500 a Gaza siano stati sufficienti a praticare l’orrore.
Non la pensa così il professor Stefano Silvestri, già presidente dello Iai, Istituto per gli Affari internazionali, acuto geopolitico, esperto di accordi e di conflitti.

O, per essere precisi, egli non accetta la domanda così posta: non c’è un tempo predefinito perché si arrivi a una pace, bisogna che gli uomini che devono costruirla siano veramente convinti di farlo. E siccome gli Usa sono ancora il più potente dei Paesi del pianeta, molto sarà, ancora una volta, nelle mani dell’inquilino di Washington, alla Casa Bianca. Cosa che preoccupa come non mai, vista l’imprevedibilità del presidente rieletto Donald Trump. Ecco l’analisi del prof a colloquio con Firstonline.

Il 2025 sarà l’anno delle paci?

“Il fatto è che Trump ha detto che la sua priorità non è tanto la pace, quanto quella di liberare gli Usa dal peso delle guerre. E quindi in realtà a lui interessa fino a un certo punto quello che accade sul terreno purché sia possibile per gli Usa disimpegnarsi. E tuttavia, siccome questo disimpegno non può e non deve nuocere alla leadership americana, ciò significa che almeno “una pace” gli Usa quest’anno devono portarla a casa. E su questo Trump si è trovato d’accordo con Biden.

Perché è stato scelto Israele, dove è stata decisa una tregua per scambiarsi gli ostaggi con Hamas, e non l’Ucraina?

Io penso che sull’Ucraina ci abbiano provato e che siano stati fatti anche dei sondaggi per capire se si poteva arrivare alla conclusione della guerra di Putin; ma che devono essere andati male perché la risposta di Mosca, ogni volta che sono state fatte avances per aprire le trattative, è stata inflessibile. Putin ha detto praticamente: io tratto se accettate tutte le mie condizioni. Che equivaleva a dire: io non tratto. Per cui restava solo il Medioriente. E i due presidenti hanno esercitato sui vari attori, Hamas, Iran e Israele, tutte le pressioni in loro potere. I primi due, essendo abbastanza malconci in questo momento, forse hanno accettato di buon grado; Israele è stato un osso più duro. Visti i problemi personali di Netanyahu, (non dimentichiamo che una volta che la guerra si sarà conclusa rischia il carcere) e i mal di pancia dei ministri di estrema destra, che vogliono semplicemente che i palestinesi siano estirpati da quella terra, si potrebbe temere che questa tregua duri quanto il gatto in tangenziale del noto film. Senza contare che pure se questa prima fase dell’accordo, che vuol dire solo scambio dei prigionieri, si concludesse per il meglio, ci sono le fasi due e tre, quelle in cui si dovrà discutere dell’assetto di Gaza e di chi dovrà amministrarla. Cioè del vero futuro dei palestinesi. Insomma anche portare a casa questa “unica” pace non sarà facile”.

Perché è così importante per Trump che si consolidi la tregua a Gaza e si proceda verso un vero accordo di pace fra Israele e i palestinesi?

“Intanto perché può vantarsene, non a caso vuole che tutto sia regolarizzato prima del 20, giorno in cui entrerà in carica. E poi perché se finisce la guerra a Gaza si può tornare a parlare del consolidamento dei rapporti fra Israele e Arabia Saudita in funzione anti Iran, rapporti spazzati via dall’eccidio di israeliani del 7 ottobre da parte di Hamas e poi della rappresaglia di Tel Aviv contro i palestinesi. Accordo indispensabile visto che gli americani non hanno da quelle parti vere e proprie truppe sul terreno che possano intimidire Teheran. Se tutto ciò andasse in porto gli Usa potrebbero poi occuparsi del resto dei temi mediorientali, che non sono pochi, a partire dal ruolo dei curdi nella regione rispetto ai turchi; e occuparsi della nuova Siria, di cui sappiamo ancora molto poco”.

Non è possibile mettere in discussione il ruolo degli Usa nello scacchiere, ma risulta difficile riporre speranze in un presidente che nei suoi auguri di Natale ha minacciato di riprendere il controllo del Canale di Panama, ha ipotizzato che il Canada diventerà il 51° Stato americano, mentre ha annunciato le sue pretese sulla Groenlandia. Una visione di “espansione territoriale” che fa pensare alla politica nazionale dell’Ottocento, come ha notato il presidente Mattarella…

“Sì, fu proprio dell’Ottocento immaginare che si può rendere più sicuro il proprio Stato allargando le frontiere. Politica tuttavia seguita anche recentemente, nel 2022, da Putin quando ha provato a ingoiare tutta l’Ucraina. Quanto ai propositi annunciati da Trump, alcuni sono nella tradizione della destra repubblicana, come quella di volersi riprendere il controllo del Canale di Panama. Trump si riferisce al Trattato che Carter firmò nel 1977, insieme con il presidente di Panama Torrijos, per mettere fine al contenzioso fra i due Stati che aveva provocato rivolte e anche morti. Il Trattato prevedeva che a partire dal 1999 gli Usa avrebbero abbandonato il controllo sul Canale, controllo che avevano dal 1903. Cosa che è accaduta e che fa infuriare ancora generazioni di repubblicani. Del tutto misteriose sono invece le pretese di Trump sulla Groenlandia, e per quale motivo essa dovrebbe essere indispensabile per la sicurezza americana. Se si tratta di scavare per le ricchezze che si dice essa nasconda sotto i ghiacci, quello si può fare anche senza che divenga territorio americano, dato che la Groenlandia fa parte di un Paese della Nato, la Danimarca, e ospita una grande base americana. E se è questione di pressione russa e cinese su quelle terre, tali pressioni si verificano anche altrove al nord, Norvegia, Svezia. O Trump pensa di invadere anche loro? Quanto al Canada, è semplicemente ridicolo pensare che possa essere (o diventare) uno Stato americano tanto è diversa la sua storia e del tutto peculiare”.

Il fatto che ne parliamo vuol dire però che c’è del metodo nella “follia” di Trump…

“Sono discorsi del tutto retorici. Il fatto meno rassicurante è che questa seconda amministrazione Trump, al contrario della prima, non è per niente condizionata da elementi meno radicali del partito repubblicano. E Trump sta facendo di tutto per isolare i possibili oppositori. Sta procedendo a una “trumpizzazione” del partito epurando tutti quelli che non la pensano come lui, arrivando a cambiare i presidenti di commissioni importanti, intimidendo o minacciando. Un solo esempio: invece dei soliti 5mila posti destinati ai “fedeli” del presidente, secondo tradizione, pare che abbia presentato una lista di 50mila. Certo non avrà 50mila uomini di fiducia, ma è un segnale per chi deve capire. C’è un clima di timore e di epurazione, dicono a Washington, e perfino alcune delle nomine che avrebbero dovuto attirare il dissenso di una parte dei repubblicani, come per esempio il nuovo ministro alla Difesa, è stata accolta in silenzio. Non ha nemici interni al momento. E questo per i prossimi due anni. Partirà e partirà correndo. Poi si vedrà con il voto di Mid term.”

Quanto peseranno Musk e il resto dei super ricchi?

“Io ritengo che la loro presenza potrebbe essere un elemento di debolezza più che di forza per lui. Sono altri egocentrici. E a dire il vero non so nemmeno quanto durerà l’amicizia di Trump con Musk”.

Però ne viene fuori un disegno della nuova America inquietante: la democrazia americana è in pericolo?

“Non credo, la democrazia americana ha radici solide e molto profonde. D’altronde non dimentichiamo che il 49,72% degli elettori ha votato per Trump e il 48,25% per Harris, cioè l’America è divisa in due. La parte che ha perso non è riuscita ad aggregare al centro ed è apparsa troppo radicale. I democratici lo sanno e ora sono alla ricerca di leader che siano in grado di farlo. Ci sarà un’altra partita. ”

E tuttavia c’è un contesto che preoccupa: il capitalismo tecnologico, (Musk, Zuckenberg, Bezos) sta tutto con Trump (fa eccezione Tim Cook di Apple). Non è un miscuglio infernale?

“Certo, c’è un’ondata di conformismo trumpiano. Ma non è la prima volta che accade nella storia americana un tale disordine. Mi ricorda in qualche misura altre ondate ideologiche: il proibizionismo, il maccartismo. Ci impressiona di più in questo momento perché arriva in controtendenza rispetto a tutto quello che ci aspettavamo: un Paese (e quindi un mondo) sempre più aperto, sempre più interessato alla società, dedito all’inclusione, a salvare il pianeta dalle opere dell’uomo più devastanti. Ma si è rotto qualcosa, il modello è apparso squilibrato, e si è tornati indietro. Ma non è un fenomeno solo americano. Anche in Europa sta accadendo”.

Come vede il rapporto della nostra premier con Trump?

“Io credo che l’Italia sia vista in funzione tattica. Il nostro Paese dovrebbe essere martellato perché spende meno per la Nato e ha un alto surplus commerciale con gli Usa. L’Italia dovrebbe essere oggettivamente un nemico per Trump. Ma… ma Meloni può essere un utile chiavistello che indebolire gli altri europei. Ed è possibile che accada. Dipende da quanto siano solide le convinzioni europee della premier. Sull’Ucraina è stata lineare. Ma se Trump, nell’ottica del disimpegno di cui si parlava, molla l’Ucraina, che fa Meloni? E se gli altri europei (quasi tutti) reagiranno molto negativamente, che farà Meloni? Con chi starà?”.

Diciamo che l’analisi finora ha prodotto un amalgama pericoloso e rischioso per la sicurezza generale. Dove può portarci?

“Resto dell’idea che il punto più pericoloso è il Medioriente. Se salta l’accordo con Gaza, se si profila uno scontro fra Israele e Iran, la tentazione della destra americana di liberarsi dell’Iran intervenendo militarmente sarà forte. Certo, sarebbe una follia peggiore della guerra all’Irak, perché l’Iran è un Paese enorme, 3 volte più grande dell’Irak e sarebbe impossibile vincerlo nemmeno pensando solo a bombardarlo. Mentre questo manderebbe a fuoco tutta la regione. Quanto all’Ucraina, il suo abbandono potrebbe essere pericoloso soprattutto per l’Europa. Putin, avendo vinto, non attaccherebbe la Nato, ma continuerebbe a minacciare. A quel punto se sul serio Trump pretenderà il 5% delle spese per la difesa comune, qualcuno accetterà, ma altri potrebbero pensare se non si più conveniente di costruirsi da se le armi piuttosto che comprare quelle americane. Insomma andarsene per fatti propri. Il che equivale a spezzare, ad annientare l’Europa. Un disegno che qualcuno ha in mente e non da ora. Una cosa è certa, se gli Usa metteranno in crisi la politica dell’alleanza atlantica in modo o nell’altro, non ultimo quello di lasciarla, cambierebbe del tutto lo scenario internazionale. Saremo di fronte alla fine dell’Occidente così come lo abbiamo conosciuto finora”.

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