Più del gas e del petrolio poté il grano? Se Putin è in difficoltà sul piano militare e si trincera nella battaglia del Donbass, dopo aver perduto la speranza di impadronirsi di tutta l’Ucraina, gli sta andando meglio in quella che è stata definita la “prima guerra del grano”.
Il grano che l’Ucraina ha prodotto quest’anno è fermo nei silos e nei granai delle aziende agricole perché l’unico porto libero dalla presa russa al momento è Odessa. E per modo di dire, perché tutte le acque intorno alla città sono minate. Chi ha messo le mine? I russi dicono gli ucraini, gli ucraini dicono i russi. In attesa di risolvere il rimpallo di responsabilità, e di un eventuale sminamento, magari di comune accordo con la Ue, il mondo rischia una crisi alimentare enorme perché, come si sa, il grano ucraino, insieme a quello russo, rappresenta un terzo del prodotto mondiale, e se non riesce a raggiungere rapidamente i mercati, vale a dire i Paesi africani, alcuni asiatici e il Medioriente, la carestia è inevitabile.
Non è un’ipotesi: la Banca africana di sviluppo, per esempio, ha stimato che, in tutto il continente, a causa principalmente della guerra mancherebbero all’appello 30 milioni di tonnellate di grano, soia e mais. Questa carenza ha già provocato in Africa un aumento del prezzo del pane del 60%, con la maggioranza della popolazione che non può sostenere un costo del genere. Giusto per rendere l’idea della catastrofe che sarebbe alle porte, per la Fao soltanto in Nigeria questa estate 19 milioni di persone si troveranno a dover affrontare una crisi alimentare. Non va meglio in Medioriente, dove si contano 9 milioni di bambini che rischiano di rimanere affamati.
E in Italia? Ne parliamo con Vincenzo Divella, amministratore delegato dell’antica azienda agro-alimentare pugliese “F. Divella spa”.
Dottor Divella, come sta vivendo questo periodo la sua azienda?
«L’azienda vive questi mesi bui come tutte le aziende con le spalle larghe, con preoccupazione relativa: nel senso che possiamo contare sulle scorte di grano fatte nei mesi passati, che ci garantiscono almeno 3 mesi di sopravvivenza. Dobbiamo spiegare però che noi siamo colpiti dal blocco del grano ucraino in maniera indiretta. Perché dall’Ucraina e dalla Russia arriva il grano tenero per produrre farine per pane e biscotti. E in Italia ne importiamo da quella zona solo il 3%. In che maniera allora noi siamo coinvolti? Venendo meno il grano ucraino, che veniva esportato soprattutto in Cina, Pakistan, Turchia, Egitto, questi Paesi sono andati a cercarlo altrove, cioè in Francia, Australia e Canada. Vale a dire i nostri venditori. Riversandosi così su questi Paesi una grande quantità di richieste il mercato è saltato, e i prezzi sono saliti alle stelle. Faccio un esempio. Nel giugno del ‘21 il grano tenero era quotato alla Borsa merci di Foggia 19 euro a quintale, oggi quota 47 euro. E comunque se non abbiamo ancora problemi di scorte di materia prime, li avremo fra qualche mese. Ecco perché la nostra speranza è che la raccolta di quest’anno sia buona e abbondante al nord del nostro Paese, dove si coltiva il grano tenero. (L’anno scorso l’Italia ha prodotto 2,8 milioni di tonnellate ndr). E che soprattutto si liberino i porti ucraini perché il grano di quel Paese possa raggiungere le aree dove era destinato».
E per quel che riguarda il grano duro?
«Per il grano duro la guerra c’entra, ma indirettamente. Ricordiamo che noi in Italia viviamo il paradosso di produrre la più grande quantità di pasta al mondo, ma che per farlo abbiamo bisogno di importare il grano duro che produce la semola con la quale si fa la pasta. Ne compriamo all’estero 20/30 milioni di quintali l’anno. Un po’ dall’Europa, qualche milione di quintali, ma il grosso dall’Australia, dagli Usa, e soprattutto dal Canada. E così torniamo all’aumento dei prezzi. Perché è accaduto? È successo che nel ‘20 il Canada aveva prodotto 70 milioni di quintali di grano duro; nel ‘21 soli 26 milioni di quintali a causa della siccità e di altri fenomeni climatici. È saltato di conseguenza il mercato: nel giugno dello scorso anno il grano duro era quotato a 28 euro a quintale, oggi quota 57 euro a quintale. E quello australiano 60 euro. In questo caso non è solo la guerra a influire, ma manca proprio il prodotto. Ecco perché stiamo incrociando le dita per la campagna di Sicilia (7milioni di quintali lo scorso anno, ndr) e di Puglia (9 milioni e mezzo, principale produttore italiano, ndr), sperando che sia abbondante. Questo ci permetterà di resistere per alcuni mesi, ma poi dipenderemo dal Canada. Se lì si faranno di nuovo 70 milioni di quintali, allora tutto andrà a posto: non ci sarà più la speculazione, gli aumenti si fermeranno, e perfino può darsi che il prezzo diminuisca. Ma se non succederà, se mancherà il prodotto, non ci saranno limiti all’aumento dei prezzi. A questo va aggiunto però che l’incremento dei prezzi è stato causato non solo dal poco raccolto, ma anche dal costo vertiginoso dell’energia e del gas. Un esempio: nel gennaio del ‘21 pagavo 1 milione al mese per energia elettrica e gas, quest’anno 1, 7 milioni. Otto milioni e mezzo all’anno di aumento, non si scherza. E su questo, sì che ha inciso la guerra. Se continua il conflitto non ci sono santi, la speculazione continuerà su tutto. Non dimentichiamo che per il pane si sono fatte le rivoluzioni».
Riaprire i porti ucraini dunque è indispensabile. Ma Putin sembra condizionare la riapertura al ritiro delle sanzioni occidentali. Un ricatto al quale evidentemente non si può acconsentire di cedere…
«Evidentemente… Tuttavia io penso che se non si riesce a ottenere la riapertura dei porti, e far passare il grano ucraino perché raggiunga le sue destinazioni, come un effetto domino, la guerra espanderà i suoi contraccolpi sulle economie mondiali in maniera esponenziale. Vedo arrivare la crisi del “rosso”, come diciamo noi. Cioè i pelati. Già mancano i vetri, che vengono proprio dall’Ucraina, scarseggiano i cartoni, che arrivano dalla Cina, così come sono diminuite le lastre di stagno. Siamo interconnessi da tempo e non possiamo più fare a meno gli uni dagli altri».
È veramente la “prima guerra del grano”? Ricorda un’altra crisi simile?
«L’altra crisi dei prezzi, quella del 2008, era solo una bolla. E infatti dopo tre mesi tutto rientrò. Stavolta la bolla è provocata dalla guerra e quindi se essa non finisce i prezzi continueranno a salire. Ripeto, se si riaprono i porti la questione del grano tenero si risolve. Ma la soluzione al problema del grano duro dipenderà non solo dalla fine della guerra, ma anche dalla campagna di raccolta del Canada. Sapremo solo a fine agosto/settembre che cosa ci aspetterà».
Contro la speculazione si può fare qualcosa?
«Non si può fare nulla, se manca il prodotto devi comprare quello che c’è e al prezzo che ti chiedono, non c’è niente da fare. E la conseguenza sarà sempre la stessa: le grandi aziende resisteranno, le piccole no».
Quanto rischiamo in Italia?
«Né più né meno quello che si rischia negli altri Paesi. Con una specificità tutta italiana: ancora oggi, soprattutto da Roma in giù, noi mangiamo 25 chili l’anno di pasta ciascuno. Se non ci sarà il prodotto, aumenteranno i prezzi, è inevitabile. E che cosa accadrà nel Mezzogiorno per esempio? Se devi pagare il pane a Milano 3 euro è una cosa, se lo devi fare a Bari è un’altra. E se aumenta la pasta in maniera insopportabile è ancora peggio. Può significare, proteste, conflitti e tensioni sociali difficili da gestire».
Quale soluzione si può immaginare per arginare questo pericolo?
«Una sola: bisognerà sovvenzionare i mugnai o i panificatori. Così come si è cercato di fare per contrastare gli aumenti dell’energia. Anche questo è un prezzo che si pagherà alla guerra».