Perché il pacchetto di misure deciso dalla Bce, unanimemente definito al di sopra delle previsioni, audace e ben costruito, ha prodotto una iniziale caduta delle borse europee e un rafforzamento dell’euro? Che cosa ci dice questa reazione sul posizionamento del mercato, sulla sua psicologia e sulla sua possibile evoluzione nelle prossime settimane? Cominciamo dal cambio tra euro e dollaro. Qui si combattono da tempo due scuole di pensiero.
La prima sostiene che, con i tassi europei sempre più sotto zero e con quelli americani che possono solo salire, il dollaro non può che continuare a rafforzarsi e ad avvicinarsi alla parità. È un ragionamento lineare, ma come spesso accade sui mercati, la semplicità può trarre in inganno. È più o meno un anno che si tira fuori la storia della parità ed è un anno che i suoi sostenitori ne escono regolarmente frustrati. La seconda scuola di pensiero, minoritaria ma intellettualmente ben attrezzata, sostiene invece che il dollaro ha già raggiunto da tempo il suo massimo di ciclo e che da qui in avanti si indebolirà. L’argomento principale a sostegno di questa tesi è che l’economia globale continua a rallentare e si trova in prospettiva sempre più a rischio di recessione.
In un contesto recessivo il dollaro tende storicamente a indebolirsi, in parte perché gli Stati Uniti non esitano a buttarlo giù quando le cose si mettono male e in parte perché vengono smontate le operazioni di carry trade, tipicamente finanziate in dollari. Un altro argomento, che è la novità di questo ciclo, è che un dollaro tendenzialmente debole è l’unica cosa che può mantenere a galla il renminbi. Un dollaro troppo forte, come abbiamo visto in agosto e in gennaio, mette infatti in moto fughe di capitali dalla Cina e, per questa via,
destabilizza i mercati finanziari globali.
Alla fine la seconda scuola di pensiero avrà ragione perché un giorno, prima o poi, una recessione arriverà. Al momento, però, non solo non si vede un rallentamento, ma il primo trimestre, almeno in America, è in accelerazione rispetto al quarto trimestre del 2015. Quanto alla Cina, per quanto forte sia il martellamento mediatico sul suo rallentamento, l’obiettivo di una crescita del 6.5 per cento per i prossimi anni è stato confermato nei documenti preparatori per il piano quinquennale che verrà approvato alla fine di quest’anno. Se dovesse essere rispettato (e finora gli obiettivi di piano sono stati sempre raggiunti) l’economia cinese sarebbe nel dicembre 2020 (cioè
dopodomani) del 37 per cento più grande di oggi.
Con buona pace di chi ipotizza atterraggi duri e implosioni di sistema. A noi però il cambio tra euro e dollaro appare ancora in equilibrio su un livello non lontano da 1.10. L’Europa non ha bisogno di un euro più debole e l’America non può permettersi un dollaro più forte. D’altra parte l’Europa soffrirebbe da un recupero prematuro dell’euro mentre l’America, su questi livelli, ha dimostrato ampiamente di reggere. L’argomento per cui i futuri rialzi dei tassi americani dovrebbero rafforzare il dollaro funziona in realtà all’incontrario. L’America infatti alzerà i tassi solo se il dollaro rimarrà tranquillo. Il livello attuale del cambio verrà dunque messo seriamente in discussione solo, come abbiamo visto, in caso di recessione oppure nel caso in cui accada qualcosa di negativo in una delle due regioni, o in America o in Europa.
Quanto alla discesa dei mercati azionari nel dopo Draghi, si tratta di qualcosa di più di una banale presa di profitto o di un sell the news. È evidente che c’è una fragilità psicologica dei rialzisti, ancora sotto shock dopo la pesante e inattesa caduta di gennaio, e una loro forte voglia di realizzare a qualsiasi costo. Dall’altra parte c’è la determinazione dei ribassisti, convinti di potere riprendere, da qui in avanti, a condurre i giochi.
Tra i ribassisti ce ne sono alcuni che sono stati colti di sorpresa dal brusco rimbalzo del petrolio e delle borse di metà febbraio. Le mani più forti e avvedute si sono però ricoperte in tempo prima che il recupero delle ultime settimane prendesse forza e hanno portato a casa ottimi guadagni. Ora, con il mercato tornato vicino ai livelli di inizio anno, ci riprovano. Ai ribassisti non importa troppo che Draghi abbia sorpreso positivamente (ha usato tutto quello che aveva a disposizione, dicono perfidamente, e ora non gli rimane più nulla) né che non ci sia recessione. Quella che conta, per loro, è l’asimmetria tra potenziale rialzo e potenziale ribasso. Se tutto va bene, come ha detto Gundlach, il rialzo sarà piccolo, se andrà male il ribasso sarà molto più grande. Se andrà bene, oltretutto, la Fed alzerà i tassi.
Si aggiunga il fatto che i policy maker, questa volta, non vogliono bolle e il gioco è fatto. Due o tre scorribande all’ingiù nel corso del 2016, partendo da 2000 di SP 500 e ricoprendosi a 1700-1800, e l’anno avrà reso bene. In linea di massima l’argomentazione ribassista ci sembra robusta, ma ha due punti deboli. Il primo è la sottovalutazione della capacità e volontà di reazione da parte dei policy maker rispetto a eccessivi indebolimenti dei mercati. Kuroda in febbraio e Draghi ora sono lì a dimostrarlo, per non parlare della risposta cinese, più forte e organica rispetto a quella di agosto. La Fed, dal canto suo, non alzerà i tassi in presenza di mercati troppo maldisposti.
Il secondo punto debole è il quadro macro. Draghi ha insistito molto sul fatto che l’economia europea sta vivendo una fase di ripresa, certo non spettacolare, ma comunque solida. La politica fiscale è ora moderatamente espansiva, quella monetaria è ultraespansiva, il cambio va bene. Va bene al punto che la Bce non vuole più crescita trainata dai mercati esterni ma intende affidarsi al mercato interno, senza rubare crescita agli altri con una svalutazione ulteriore. Gli Stati Uniti, dal canto loro, sono, come abbiamo visto, in riaccelerazione e i sussidi di disoccupazione, scesi ai minimi dal 2009, hanno confermato in queste ore la forza strutturale dell’economia americana.
Finché i dati macro si manterranno su questi livelli i ribassisti faranno fatica a spingere di nuovo le borse sui minimi. Certo, all’orizzonte c’è il referendum su Brexit, ma è ancora presto per imbastire una campagna di paura. Né va esclusa la possibilità che la negatività, così diffusa nei mercati anche nelle fasi di rialzo, produca alla fine portafogli così scarichi di rischio da essere esposti alla possibilità di overshooting all’insù, magari a fine anno, una volta che si sarà verificato che siamo ancora tutti vivi. Con il petrolio che tiene e i dati macro buoni, l’ondata di realizzi non avrà vita troppo lunga.
Un eventuale ritorno sopra 2.000 di SP 500 sarà però molto nervoso e avrà bisogno di continue conferme dal lato macro e da quello degli utili. Per questo, più che un ritorno al bear market o una continuazione del rialzo delle ultime settimane, vediamo probabile, nel futuro prossimo, una guerra dei nervi tra rialzisti timidi e ribassisti aggressivi.