L’incubo continua. I venti di guerra impazzano ad Est, si alzano le barriere tra le economie, così come il costo del denaro, sempre più su a danno dei più poveri. Ma le banche centrali, a questo punto, possono ben poco. “I problemi si risolveranno solo quando finirà la guerra”. Parola di Mario Noera, docente di economia dei mercati finanziari in Bocconi, uno dei più attenti osservatori delle dinamiche macro tra le varie aree del pianeta. Ma stavolta, il bandolo della matassa, compresa la lotta all’inflazione, non passa dai mercati. Prima occorre spezzare il circolo vizioso del confronto armato.
“Non si tratta di essere pacifisti o meno. Ci vuole un momento simbolico ma anche sostanziale di tregua per disinnescare le bombe. Potrebbe bastare un time out come nel basket per uscire da una spirale pericolosa soprattutto per l’Europa che può trovare il suo ruolo solo in un mondo multipolare”.
Vede un segnale in questa direzione?
«No, almeno per ora. Il mio è solo un auspicio. Ma basterebbe l’equivalente del whatever it takes di Draghi, una spinta per sgonfiare l’emergenza. Intendiamoci, non si tratta di essere pacifista o meno ma di riprendere in mano il volante che oggi non è governato da nessuno».
A proposito di Draghi, la Bce si appresta ad alzare di nuovo i tassi. Sotto la pressione dell’inflazione ma senza tener in conto la lotta alla recessione. È un cambio di rotta pericoloso. O no?
«La condotta della Bce, come delle altre banche centrali, è di seguire la rotta della Fed. Una rotta obbligata perché, in realtà, l’Europa non avrebbe necessità di una mossa del genere. Ma in un regime di cambi flessibili se non segui la politica monetaria della Fed riporti dietro l’inflazione provocata da una massiccia svalutazione del cambio. In questo regime di cambi flessibili è quasi inevitabile per la Bce seguire l’atteggiamento della banca centrale americana. Questo lo si è visto bene con la crisi della sterlina: non è stato solo l’annuncio di una politica fiscale dissonante a far precipitare la valuta e di riflesso i gilt: in un momento come questo qualsiasi politica anticiclica non sarebbe accettata dai mercati».
Nessun dubbio, dunque.
«Purtroppo. Io sono convinto che non è quella la terapia di cui ha bisogno l’Europa: certo, può disinnescare alcuni fattori accelerativi che derivano dal dollaro forte, ma non il problema. Quello si risolverà solo quando finisce la guerra».
Almeno questo vale per l’Europa…
«In America ci sono matrici interne che spiegano l’inflazione. Non so dire se la terapia della Fed sia adeguata oppure troppo violenta per correggere gli eccessi legati all’accelerazione dei salari e dei consumi. Ma negli Usa ha senso la risposta classica all’aumento dei prezzi. Non so valutare le dimensioni della manovra che durerà ancora un po’ anche se credo che l’obiettivo sia quello di stroncare le attese di rialzi piuttosto che arrivare ad una vera recessione. Quando vedranno gli effetti sull’economia la Fed si fermerà. Ma il ciclo dei rialzi per ora non è finito: il sentiero per l’Europa è molto stretto».
A che si deve il cambio di rotta della Fed, da colomba a falco molto aggressivo. C’è una ragione politica?
«Più che altro c’è un problema di reputazione delle banche centrali. La Fed ha molto titubato l‘anno scorso e così ha logorato la sua credibilità. Powell così restaura la sua reputazione per l’ultima parte del suo mandato. La stretta si incrocia poi con la volontà dei democratici a non presentarsi alle elezioni di midterm con la benzina in ascesa. Ma non credo che le elezioni, pur assai importanti per gli equilibri futuri del mondo, abbiano condizionato l’ascesa del costo del denaro».
L’avanzata del dollaro intanto rimescola le carte per il pianeta. Banca Mondiale e Fondo Monetario hanno alzato l’allarme sulla sorte dei più poveri che rischiano la fame…
«La situazione è oggettivamente molto brutta, anche a guardarla solo dal punto di vista macroeconomico, senza considerare gli altri rischi. L’innesco della crisi è geopolitico. Ma non è solo la conseguenza della guerra e dei rischi che si porta dietro. Semmai è il risultato di un’impostazione competitiva e non cooperativa tra le potenze. Vale per la Russia ma anche per la Cina e le sue more su Taiwan. Il quadro sta cambiando in peggio. I benefici di una lunga stagione di globalizzazione (espansione commercio, bassa inflazione) hanno innescato la retromarcia».
Un fenomeno che forse era prevedibile. Anche perché la Cina sta insidiando i primati Usa…
«Ma ci potevamo augurare una situazione di conflitto a bassa intensità, destinata a diluirsi magari in decenni come una nuova Guerra Fredda. Invece i tempi del conflitto sono assai più veloci. E questo ha determinato il riposizionamento degli attori in campo, sempre più sensibili al confronto militare, il vero asse attorno a cui si schiera oggi il mondo».
Le conseguenze? Che spazi ci sono per l’Europa?
«Gli effetti principali sono molto distruttivi per l’Unione Europea che ha da gestire processi complicati: sul piano del prezzo energetico ma anche delle attività produttive da riconvertire a fronte della minor apertura dei commerci. Un grosso guaio per Italia e Germania che hanno beneficiato di energia a basso costo e di apertura di sbocchi commerciali ad Oriente».
Come reagire?
«La conversione del modello va fatta in tempi rapidi ma avrà successo solo con la fine della guerra; l’accelerazione del conflitto e la scarsa capacità di reagire dei vari Stati comportano una miscela esplosiva. Ci vuole la fine della guerra, un momento simbolico in cui si esce dalla leadership militare e si ragiona. Altrimenti si esacerba un conflitto sempre più ideologico e meno pragmatico, in cui si rischia di perdere di vista l’obiettivo».
Intanto in Europa salta per la prima volta il vertice tra Francia e Germania, da sempre l’asse portante della Comunità. Che confusione…
«Non è solo confusione. La crisi ha effetti fortemente asimmetrici sui Paesi perché la comunità non ha fatto un salto di qualità istituzionale ma è rimasta una confederazione di Stati che si sentono sovrani. E così, quando gli interessi non coincidono, si fa fatica a trovare una sintesi. Per giunta, quando tende a prevalere la geopolitica, anche Paesi prima marginali diventano centrali. E quando la parola passa alle armi non si guarda più alla ragione o agli interessi. L’Europa ha sottovalutato un anno fa l’impatto della guerra sulla Ue».
E oggi ci ritroviamo con una crisi dell’energia quasi insolubile.
«Energia, price cap, risparmi d’energia. Mi sembrano tutti tentativi per tamponare una situazione che non si sa fronteggiare. Si è persa l’occasione per intervenire al momento giusto. A marzo aveva senso proporre il tetto del gas come aveva fatto Draghi che, come aveva dimostrato ai tempi della Bce, ha ben chiara l’importanza delle parole. Così come il whatever it takes ha funzionato grazie all’effetto deterrente delle parole, allora il tetto proposto dall’Europa tutta unita avrebbe avuto un effetto calmierante. Oggi è più difficile: rischiamo di penalizzare i fornitori che ci hanno consentito di ridurre la dipendenza dalla Russia. L’alternativa è di lasciar liberi i prezzi ma agire sulle bollette. Fattibile ma costoso per il debito pubblico, c’è chi può farlo chi no. L’unica via è di agire come uno Stato federale come avvenuto con il Recovery Fund e dare ossigeno a tutti. Ma se non ci riesci ne esci malissimo».
In questa cornice esordisce il governo Meloni, a chiara impronta sovranista. C’è spazio in tal senso?
«Penso che ci possa essere un argomento sovranista a favore dell’Europa. Non so valutare la qualità della futura squadra di governo. Ma potrebbe avere un senso la difesa dell’industria nazionale in un momento molto delicato. Noi, ma non solo noi, rischiamo di perdere pezzi di industria, a vantaggio di Paesi con i costi dell’energia molto più bassi. È un problema europeo, perciò per difendere pezzi di industria, quindi di sovranità economica, oggi non puoi prescindere dall’Europa. L’unica strada vincente non è autarchica, e forse il centrodestra l’ha capito. Ma la situazione oggi è così tirata sul piano ideologico che è difficile venir fuori dagli schemi. Vale anche per la sinistra che commette l’errore di dividere il mondo in pro o contro l’Ucraina, senza valutare la complessità della situazione».
Si può uscire dalla logica del muro contro muro?
«Ho l’impressione che sia in corso in Usa un dibattito sotterraneo che si svilupperà dopo il voto sui passi successivi. Sia negli ambienti liberali che conservatori si fa strada la ricerca di un terreno comune per uscire da questa situazione complicata, più nei confronti della Cina che della Russia. Ma basta leggere Foreign Affairs per capire che il fronte moderato nutre grandi preoccupazioni sui rischi della situazione. E lo stesso ha fatto Obama. È evidente che il gioco è nelle mani degli Usa, ma si ha la sensazione che Pechino sia pronta a raccogliere la palla».
In tal caso si potrebbe tornare a parlare di calo dei tassi?
«Altroché, I mercati hanno ormai fattorizzato così tanti elementi negativi da dare per scontata una recessione pesante. Se ci fosse un segnale, anche timido, di inversione, l’economia prenderebbe il volo».
Altrimenti?
«La vedo male. Le cose si sono incastrate così bene, dall’aumento dell’energia al calo del dollaro ed all’aumento dei debiti che, se non si inverte la rotta, rischiamo di infilarci in una crisi epocale. Altro che recessione».