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Guala Closures scommette sulle borse (e i tribunali) dei paesi emergenti

Le Borse occidentali non premiano le aziende industriali. I listini asiatici o brasiliani sì. Così se Guala Closures dovesse decidere di tornare in Borsa (“non si può mai mettere limite alla provvidenza” ripete sempre Marco Giovannini, amministratore del gruppo di Spinetta Marengo (AL) specializzato in tappi e chiusure di sicurezza), lo farebbe tra l’Asia e il Sud America. “Il vantaggio – spiega Giovannini – è che lì l’investitore non si aspetta di guadagnare ogni giorno, ma legge i numeri in prospettiva industriale, investe sulla base di uno sviluppo futuro, come per esempio la necessità di costruire una nuova fabbrica, e non solo sui dati delle trimestrali che hanno ritmi che non premiano le realtà industriali”.

È chiaro, almeno nel caso della moda, che la spinta alla quotazione a Hong Kong (Prada) è arrivata anche da questioni di marketing: l’Asia è una piazza cruciale per le vendite. Ma le Borse occidentali richiedono anche dimensioni elevate per non avere vita difficile. “Per quanto si possa destinare alla quotazione, il flottante di fatto rimane basso: i grandi istituzionali come i fondi pensione che investono nei mercati occidentali mantengono il titolo in portafoglio se credono in un’azienda. In Asia o ci sono meno fondi pensione che investono sui listino o ragionano in modo diverso, comprando molto le banche”. Paesi che agli occhi degli europei continuano a sembrare lontani hanno iniziato a rubarci le nostre migliori aziende. In un modo o nell’altro: un po’ ce le comprano (come la Rinascente ceduta ai thailandesi del Central Group), un po’ le quotano (come Prada mentre Ferragamo ha detto che quotarsi in Italia è stato un dovere).

E non è solo finanza. Nel caso di Guala Closures ciò che più colpisce è l’esperienza diretta sul campo in Paesi considerati difficili. Che sorprendono secondo Giovannini soprattutto su un fronte: i tempi della giustizia per le imprese. “Agli occhi di un europeo o americano certi paesi più sembrano difficili e più in realtà sono corti i tempi della giustizia. In Colombia in 6 mesi abbiamo vinto due cause per la protezione dei brevetti e poi abbiamo vinto anche in Brasile, Russia e Cina”.

Ed è proprio il Dragone, il regno della contraffazione, il Paese che non ti aspetti. Guala Closures ha 70 brevetti estesi in tutto il mondo (spende ogni anno per l’estensione dei brevetti nel mondo circa 400mila euro, lo 0,1% del fatturato) e ciclicamente si trova a dover portare le proprie ragioni in tribunale contro concorrenti che le copiano i prodotti. È successo nel 2008 anche in Cina, quando un’azienda locale ha clonato una particolare chiusura offrendola allo stesso cliente cinese di Guala Closures oltre che ad altre aziende. “Nel 2007 – racconta Giovannini – abbiamo fatto il filing e nel 2008 siamo stati chiamati per la prima volta davanti al giudice. In tempi molto brevi, che noi ci sogniamo in Italia”. In sei mesi il giudice ha dato ragione a Guala Closures che è stata poi chiamata in appello dai cinesi. “Il giudice – ha raccontato Giovannini – ci ha dato 3-4 mesi per trovare un accordo e nel frattempo ha bloccato le esportazioni delle chiusure copiate dall’azienda cinese. Ma l’accordo è fallito e il processo d’appello si è chiuso a nostro favore. Abbiamo così ottenuto che la società cessasse la produzione e la pubblicazione della sentenza”. Sentenza che è stata puntualmente rispettata: “Non c’è nessuno che li si sognerebbe di non farlo, noi abbiamo una visione distorta di certi Paesi”, dice Giovannini. Così l’azienda cinese ha distrutto lo stampo e ha iniziato a produrre una differente chiusura per un target di clientela diverso e da allora non è più un problema per Guala Closures. Sorpresi dal risultato? “Il caso cinese colpisce perché tutti hanno l’idea che in Cina non si possa fare nulla, invece non è così – dice Giovannini – Producendo lì con una controllata al 100% siamo percepiti come un produttore locale che dà posti di lavoro. Così come in Colombia, dove abbiamo vinto. Ma un esito analogo c’è comunque stato in Russia nel 2006 dove non avevamo stabilimenti, ora abbiamo una causa pendente in Turchia dove non produciamo, staremo a vedere”.

Certo, non è una vittoria economica: il risarcimento è simbolico. In Cina si è trattato di 100 mila euro rispetto alla richiesta di 1,5 – 2 milioni di euro di danni: pare chiaro che il giudice non poteva permettersi di infliggere una pena che avrebbe fatto fallire una società cinese. “Non ci abbiamo neanche pagato le spese degli avvocati – commenta Giovannini – ma nel complesso è andata bene: con questa sentenza è passato il concetto in territorio cinese che se ci copi, paghi. Con il beneficio che il competitor è obbligato a fare altro e non sempre ci riesce. E di concorrenti piccoli ne abbiamo una marea. Non solo. Rappresenta anche un messaggio positivo nei confronti dei clienti: acquistando le nostre chiusure non verranno contraffatti neanche loro”.

Il che è fondamentale soprattutto in Paesi come la Cina dove c’è molta distillazione contraffatta e contrabbando: l’accise è del 300/400 per cento. “Si recuperano le bottiglie vuote di drink di marca, ci si mette vodka di bassa lega, la si ritappa con una chiusura che assomiglia all’originale e la si vende al 50% in meno – dice Giovannini – un fenomeno 10/15 volte superiore alla contraffazione delle borse”.

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