C’è un impegno – tra i tanti, ovvio – su cui il governo di Mario Draghi sarà chiamato a fare cose diverse da quelle viste finora: il Green Deal. Che Beppe Grillo nel suo incontro con il Presidente incaricato abbia insistito su una nuova governance della transizione verde, è tutto dire. Come se non si fosse accorto che negli ultimi tre anni i Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico sono stati occupati da esponenti Cinquestelle a lui molto graditi. La sfida per una rigenerazione dell’economia italiana in chiave sostenibile è certamente strategica, ma ora bisogna fare i conti con i punti di partenza.
Nel quadro del Next Generation EU, il Conte 2, ha detto e spiegato per mesi di ritenere le scelte per la new economy indispensabili per rilanciare il Paese. Il Parlamento si è misurato con varie misure, anche se i benefici non sempre hanno inciso in profondità, lasciando perplesse industrie e istituzioni locali. Si gioca una partita complessa che da noi vede in campo più giocatori. Dal 2018 ad oggi un giocatore titolare insostituibil, tuttavia, c’è stato: il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. La sua permanenza tanto nel governo gialloverde che in quello giallorosso, ha voluto segnare una continuità almeno ideale nella gestione di punti delicati della new economy.
Considerato da tutti un esperto, Costa ha messo in campo molte iniziative per l’ambiente e la mitigazione dei danni accumulati in decenni. Ha sostenuto una gradualità nel passaggio alle forme di economia circolare. Ha aiutato la mobilità sostenibile con bici e monopattini, ha dialogato con le Associazioni, ha combattuto l’uso indiscriminato della plastica e promosso diverse contesti green. Allo stesso tempo non ha chiuso le discariche dei rifiuti, ha spesso litigato con le Regioni, è stato strenuo oppositore della costruzione di nuove infrastrutture e di modelli di riciclo. Qualche volta ha dovuto ricredersi dinanzi a progetti essenziali, come quello del gasdotto Tap sulle coste pugliesi. «Un opera inutile» aveva detto, sull’onda delle proteste grilline, senza poi (per fortuna) altre successive esternazioni quando l’infrastruttura è entrata finalmente in funzione. Ora c’è chi si rammarica che nel toto ministri il suo nome non ci sia.
Mario Draghi, dunque, dovrà rimettere mano ad un programma a lungo condizionato da posizioni preconcette contrarie ad una efficace integrazione dei cicli di produzione, consumo e riciclo. La parte vera di qualsiasi strategia di green economy. La stessa Unione Europea, in fondo, si aspetta che il Recovery plan italiano contenga una visione sostenibile e praticabile della ripresa post COVID. Che si punti su investimenti utili alla crescita, con un occhio alle zone più depresse, bisognose di mezzi, strumenti e « pedagogia » verde. Che senso avrebbe portare a Bruxelles ad aprile un Piano coperto da tanti soldi disconoscendo, però, l’utilità degli impianti di trattamento rifiuti, della ricerca di idrocarburi sul suolo nazionale quando dobbiamo importarli, di strutture non invasive e di altri inganni? Ancora il leit motiv della decrescita felice? Non sono in discussione né la transizione energetica, né gli obiettivi di riduzione di Co2 al 2030. Il cambio di indirizzo dovrà, piuttosto, avere alla base una visione di lunga durata, che va ben oltre i piani di neutralità climatica.
La settimana scorsa, Frans Timmermans, Vice Presidente europeo per il Green Deal ha detto che la Commissione si appresta a rendere più facile gli investimenti nella transizione verde con particolare attenzione alle regole di concorrenza. In sostanza se si vuole avanzare bisogna trovare il giusto equilibrio tra investimenti pubblici e privati. Senza i primi, i secondi caleranno rispetto a quello che le imprese hanno fatto negli ultimi anni. Un assist involontario, quello di Timmermans, a favore di uno come Draghi che conosce i meccanismi della finanza e che può fare dell’Italia un valido apripista. Lasciando cadere ogni altra superflua suggestione ecologista.