“Tocca ai politici trovare una soluzione” continua a ripetere Alexis Tsipras in queste ultime due settimane, certamente le più complicate da quando è a capo del governo ellenico. E, in effetti, ha ragione. La trattativa, oramai, è in mano ai politici europei. Non tutti nello stesso modo, però. La Germania e la Francia hanno assunto un ruolo di leadership, con Angela Merkel e Francois Hollande che discutono direttamente con il premier ellenico, formando un “direttorio” di cui, forse, l’Italia avrebbe interesse a far parte.
La situazione in Grecia peggiora di giorno in giorno. I timidi segnali di ripresa che si intravedevano a fine 2014 sono spariti. Da gennaio, le previsioni di crescita per il 2015 sono state riviste al ribasso di due punti percentuali (dal 2,5 per cento allo 0,5 per cento), quelle del surplus primario di oltre 4 punti (dal 4,8 per cento allo 0,4 per cento), la disoccupazione di mezzo punto percentuale (dal 25 per cento al 25,5 per cento) e i depositi bancari sono ai minimi storici.
In un simile scenario, il governo di Alexis Tspras dovrebbe correre ai ripari e cercare al più presto un accordo. Anche perché, di tempo, oramai non ne rimane molto: entro il 30 di giugno, dovrà essere rimborsato un miliardo e mezzo di euro al Fondo Monetario internazionale.
E, invece, il negoziato si è bloccato. Atene ha rifiutato tutte le proposte del Brussels Group (il nuovo nome della Troika voluto dalla Grecia): la revisione delle aliquote Iva (nonostante la giungla ingiustificata di agevolazioni-esenzioni), la riforma del lavoro (nonostante il salario minimo proposto, 751 euro, sia di poco inferiore a quello tedesco), la riforma delle pensioni (nonostante la spesa pensionistica ellenica, 16 per cento del totale, sia tra le più elevate dei paesi avanzati) e, soprattutto, un avanzo primario all’1 per cento nel 2015 e al 2 per cento nel 2016. “Il popolo greco non può più sopportare sacrifici e umiliazioni”, ha dichiarato il premier ellenico.
Su queste basi, un accordo appare sempre più difficile, quasi impossibile. Eppure, il 71 per cento dei greci sarebbe a favore di un compromesso pur di scongiurare il rischio di un’eventuale default, e soprattutto, mettere fine all’incertezza (Grexit si, Grexit no) che sta facendo sprofondare il paese in una crisi ben peggiore di quella degli ultimi sei anni. Tsipras ne è consapevole, ma deve far fronte alle resistenze dell’ala più radicale del suo partito, determinata a portare avanti le promesse fatte in campagna elettorale: in sostanza, una manovra espansiva pari a 11 miliardi di euro, quasi il 7 per cento del Pil (come se l’Italia spendesse 120 miliardi di euro).
E così, data l’impasse dal punto di vista tecnico, Tsipras ha deciso di impostare le trattative su un piano prettamente politico, scegliendo come interlocutore proprio la nemica giurata del suo paese, Angela Merkel.
Secondo Atene, la cancelliera è l’unica in grado di trovare una soluzione politica. Ne ha le capacità, ma, soprattutto, gli incentivi dal momento che la Germania vanta crediti per 60 miliardi di euro nei confronti dello stato ellenico. E poi, il default greco metterebbe a repentaglio il futuro dell’unione monetaria, e quindi dell’euro, scenario che la Merkel vuole assolutamente evitare.
La cancelliera, però, si guarda ben da portare avanti i negoziati da sola. Vuole il supporto della Francia, in nome di quell’asse franco-tedesco che ha gestito la crisi greca sin dalle prime ore (all’epoca il sodalizio con Nicolas Sarkozy era stato soprannominato il Merkozy). L’ultimo di una serie di incontri tra la leader tedesca, il presidente francese Hollande e il premio greco Tsipras è avvenuto lo scorsa settimana a margine del summit tra i capi di stato e di governo dell’Unione europea e quelli dell’America Latina.
L’Italia ha, finora, partecipato in modo discontinuo a questo genere di incontri. Ad esempio, nel 2011, faceva parte del gruppo ristretto di paesi che ha discusso, in particolare con le controparti private, la ristrutturazione del debito greco. In questi giorni, Matteo Renzi ha indicato di voler “partecipare solo ai tavoli istituzionali”, ossia solo quelli che includono tutti e 19 i paesi dell’unione monetaria. Una posizione comprensibile dal punto di vista formale ma che rischia, nel lungo termine, di minare la capacità negoziale del nostro paese.
In un’unione a 19 è fisiologico – se non auspicabile – che si crei un direttorio in cui partecipano gli stati più grandi, chiamati ad espletare funzioni di leadership. L’Italia, terzo paese per dimensione, potrebbe sedere a quei “tavoli non istituzionali”. E non solo per discutere di Grecia (l’ammontare di crediti italiani verso la Grecia, tra l’altro, è molto simile a quello francese, rispettivamente 40 e 46 miliardi di euro). Ma anche per sfruttare quelle occasioni per discutere informalmente di altri temi. Come l’immigrazione, ad esempio, su cui è in atto uno scontro con la Francia.
Far parte di un direttorio può servire proprio a imbastire rapporti duraturi, che si basano – anche in Europa – sulla fiducia e su reciproche concessioni. In passato, a causa della durata troppo breve dei suoi governi, l’Italia non è mai riuscita a far parte di questo direttorio; basti pensare che Angela Merkel, da quando è a capo della Germania, ha avuto a che fare con ben cinque presidenti del Consiglio italiano diversi. Forse potrebbe essere venuto il momento di cambiare.